Calcio
Il gallo di Madeira
Un pulcino diventato uno dei migliori calciatori della storia
Pubblicato il 28.08.2021 17:29
di Giorgio Genetelli
Il ragazzino ombroso e balbuziente, un pulcino venuto da un’isoletta atlantica col nome di un vitigno ma spazzata dagli alisei, sarebbe diventato uno dei migliori calciatori della storia, sfruttando anche quel terzo millennio così denso di immagini e suoni. Nelle sue prime squadre era un giunco ondeggiante tutto finte di corpo e gioco di gambe. In Inghilterra un grande maestro della panchina stravedeva per lui, che in una squadra di campioni si affermava misterioso come un personaggio di Pessoa.
Poi il freddo mare inglese non bastò più e il ragazzo se ne andò nel cuore della Spagna, in una squadretta dell’altopiano dove il mare si vedeva solo in cartolina. La lingua parlata era quasi uguale, ma lui cominciò a parlarne un’altra, quella calcistica, tutta sua, inimitabile, in perenne concorrenza con i suoi limiti di giovane gallo da battaglia. Il ragazzo spostava in avanti sé stesso, oltre miriadi di titoli e coppe. Si stava trasformando da spumeggiante orpello in razionale ingranaggio da gol. A decine, a centinaia, di piede e di testa. Tutti i passaggi erano per lui, tutti gli spazi gli venivano aperti da compagni-operai al suo servizio. E giù altri gol, altre esultanze. Che poi diventarono una sola, un balzo e atterraggio, monotematica come i suoi gesti inarrestabili. Da giunco a qualcosa di meccanico nella postura di corsa, perfino il tocco divenne metodico come la misura di un calibro.
Ma non bastava: la rincorsa alla gloria imperitura gli era contesa da un piccoletto che curvava le linee in una città di mare non troppo lontana. Quindi, il nostro ragazzo lasciò l’altopiano per andare in una squadra a righe verticali ai piedi delle montagne, in una città di lamiere piegate al progresso. Gol a decine, anche lì, in quel posto composto e austero, quasi come lui. Sempre più immaginifico e digitale, il ragazzo ormai la palla non la passava più a nessuno: stava sulla sinistra, quasi immoto, la chiamava, gliela davano, la portava avanti e tirava in porta, più o meno come quando a cinque anni si vuole fare tutto da soli
Piano piano, giorno dopo giorno, stava diventando una specie di peso morto, o un mostro che divorava gli altri calciatori, avversari e compagni. Era tempo di andare, chissà dove, magari in qualche posto ancora da esplorare, come in fondo fanno tutti quelli che nascono col mare tra i piedi. Nessun porto sembrava libero, la speranza di un altro viaggio sempre più flebile, ma all’ultimo giorno, il ragazzo, ormai uomo pieno di muscoli ed ego, prese le vele, abbandonò la città di ferro e tornò dove era stato un giovane giunco: il mare inglese e le sue coste gelide.
Da allora, le notizie sono sporadiche: alcuni dicono che abbia ritrovato finte e altruismo, altri parlano di un mesto margine del gioco, altri ancora giurano di averlo visto sorvolare i campi dell’Impero con una corona d’alloro, ma non sanno dire se sia quella dei vincitori o degli sconfitti. Tutti sono d’accordo nel descrivere come sempre più rigida la sua falcata, simile a quella dei galli da combattimento, quelli vecchi.