Sono amici dal lontano 1995, quando si incontrarono per la prima volta in
un allenamento del Grasshopper. La scintilla scoccò subito e tra Kubilay
Türkyilmaz e Murat Yakin fu amicizia a prima vista.
Kubi aveva 29 anni, era nel pieno della sua carriera, Murat era invece un
22.enne di belle speranze che militava nelle cavallette già da tre anni.
I due, pur percorrendo strade diverse nella vita, non si sono mai persi di
vista.
Grandi giocatori che hanno scritto pagine importanti del calcio svizzero.
Kubi il bomber per antonomasia, Murat un regista. Sia di centrocampo che
difensivo. Con una cosa in comune: la forte personalità. Qualcosa che in uno
spogliatoio si riconosce subito e che può portare dal grande rispetto
all’amicizia.
Kubi, com’è stato il vostro primo incontro?
“Andai in campo per il primo allenamento con la maglia del Grasshopper e
Murat era già lì. Ero curioso di conoscerlo perché sapevo che anche lui aveva
radici turche e che parlavamo la stessa lingua”.
È subito scattato un feeling tra di voi.
“Assolutamente sì. Il nostro rapporto è stato subito molto forte, anche per
via della lingua e della cultura che ci accomunavano. Eravamo due ragazzi che
parlavano e ascoltavano musica turca, anche nello spogliatoio. Siamo riusciti
addirittura a farla mettere durante una partita dopo i nostri gol”.
Dal rapporto in campo a fuori dal campo il passo è breve.
“Ci vedevamo spesso per mangiare assieme, anche con la sua famiglia. Ho
conosciuto bene sua mamma e i suoi fratelli, che abitavano a Basilea ma
venivano spesso a Zurigo a trovare Murat. Andavamo a mangiare tutti assieme in
un ristorante turco. Sono stati dei bellissimi momenti che ricordo ancora
adesso con piacere”.
Un rapporto che dura tutt’ora.
“Ci sentiamo ancora, mi piace chiamare sua mamma, mi sembra di parlare con
la mia. Anche mia mamma andava sempre in tribuna e se la prendeva con chi mi
criticava. Faceva così anche quella di Murat e ogni tanto so che in tribuna litigava
con qualcuno: non accettava che criticassero i suoi figli o il sottoscritto”.
Che calciatore era Murat?
“Giocava da numero sei, ossia da regista di centrocampo. Nonostante fosse
ancora molto giovane ricopriva quel ruolo con grande personalità. Anche lui
come me era cresciuto molto velocemente visto la particolare situazione
famigliare che aveva dovuto affrontare. In quegli anni al Grasshopper Christian
Gross lo spostò poi al centro della difesa, poiché con il suo piede preciso
sapeva innescare gli attaccanti. Era un gioco che piaceva al nostro allenatore
e che Murat interpretava perfettamente”.
Non era però velocissimo, vero?
“È così, però sapeva supplire a questa carenza con un incredibile senso
della posizione. È stato uno de giocatori tatticamente più forti che abbia
conosciuto. Mi ricordava Ronald Koeman, un altro difensore non proprio
velocissimo che però nella mia vita non ero mai riuscito a dribblare.
Oltretutto Murat in campo ostentava una calma da veterano e questo lo
percepivamo anche noi compagni”.
Ma tu Murat lo dribblavi in allenamento?
“Io sì, e poi lo prendevo in giro…”.
Che tipo era nello spogliatoio?
“Lui parlava tedesco e riusciva a fungere da collante tra la parte svizzera
e quella latina dello spogliatoio. Nonostante fosse giovane lo ascoltavano
tutti. Era stato portato direttamente dal nostro direttore sportivo Vogel, che
credeva molto in Murat e anche per quello fu rispettato sin dal principio”.
Come valuti la sua carriera da giocatore?
“Sono convinto che avrebbe potuto fare di più ma quando è andato all’estero
non si è mai veramente imposto. Il motivo non lo so, un giorno vorrei
chiederglielo. Lui però è uno che ama avere tutto sotto controllo e forse lontano
da casa non ci è mai veramente riuscito”.
Che tipo di allenatore è?
“È uno che ama entrare nella testa dei giocatori, il classico psicologo. Fa
rendere al massimo ogni elemento a sua disposizione. È anche piuttosto duro, ti
dice le cose in faccia e nel contempo risulta piuttosto riflessivo. Diciamo che
non sono per niente sorpreso della carriera che ha fatto da allenatore”.
È l’uomo giusto per la nazionale svizzera?
“Credo che sia l’uomo ideale in questo momento. Parla la lingua, ha vissuto
una lunga carriera in nazionale, sa come la pensano i giocatori di seconda
generazione e molti di loro li ha già allenati a Basilea. Direi che è il
profilo perfetto per questa nazionale”.
Non ha apportato molte modifiche per quanto riguarda la prima convocazione.
“Credo che abbia fatto molto bene, non ha voluto stravolgere il gruppo che lavora
assieme da parecchi anni. Sta ancora valutando il materiale a disposizione e
quando sarà pronto dovremo aspettarci delle scelte anche drastiche. Con il
tempo sembrerà sempre di più a un manager inglese, uno alla Ferguson tanto per
intenderci, che ama prendersi a carico le responsabilità non solo sportive”.
Cosa ti aspetti dalla sua avventura in nazionale? Mercoledì è partito con
una vittoria sulla Grecia.
“Nel calcio come nella vita ci vuole sempre un po’ di fortuna. Con il tempo
saprà senza dubbio farci fare quel clic che tutti ci aspettiamo”.
Hai visto qualcosa di diverso contro i greci?
“Mi è sembrato di notare una squadra mentalmente più libera, meno
ingabbiata negli schemi che aveva inculcato Petkovic dopo tanti anni. Le
assenze? Stiamo parlando di giocatori importanti, ma da una parte potrebbe
anche essere un fattore positivo: Murat tira sempre fuori il meglio da queste
situazioni e i giocatori sanno che dispongono di un’occasione irripetibile”.
Stasera c’è Svizzera-Italia: partiamo battuti?
“Secondo me no, anche perché bisognerà capire con che atteggiamento
arriverà l’Italia. Gli azzurri sono campioni d’Europa e ovviamente partono
favoriti ma se non giocheranno con la testa giusta potrebbero andare incontro a una brutta sorpresa. Io mi
fido di Murat”.