CICLISMO: 51 ANNI FA A CESENA NASCEVA MARCO PANTANI
Pantani, quando la storia diventa tragedia
Fece sognare l'Italia: la sua morte è ancora oggi avvolta dal mistero
Pubblicato il 13.01.2021 09:16
di Angelo Lungo
L’antropologo Marc Augé afferma: “Il ciclismo è una forma di umanesimo. La bicicletta è mitica. Rinvia al nostro passato perché siamo andati tutti in bicicletta da adolescenti; è mitica perché associata a grandi eventi sportivi, è epica perché ha visto affrontarsi campioni in duelli che erano appassionanti. Permette di riallacciare il passato e l’ideale”.
Il 13 gennaio 1970 nasceva a Cesena Marco Pantani, in Romagna terra colma di storia e anarchica, ora nota per le discoteche, gli stabilimenti balneari e il divertimento.
Personaggio controverso, sicuramente un eroe tragico dello sport. Era un rivoluzionario? Era un ribelle? Forse. La sua professione? Scalatore. Lo scalatore nel ciclismo, ha un fisico esile, talvolta è stortignaccolo. Aspetta le salite, quelle con i tornanti e quelle senza per scattare. Scatta uno, due, tre volte, strappa. Vuole scavalcare la montagna, intende domarla. È irrazionale, si lascia guidare dall’istinto e dalla follia, non segue nessuna tattica. Appena scorge un’erta: va in fuga. Il suo avversario è un passista-scalatore: alto, pedala con stile, fisico scolpito. È capace di  lunghe andature in pianura con velocità sostenuta, costruisce il suo vantaggio a cronometro e lo difende in montagna.
I tifosi amano gli scalatori, anche se non vincono quasi mai. Nella vita come nello sport, i vincenti sono ammirati e attraggono. La nostra cultura esalta tutti quelli che ce la fanno, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Ci si identifica nel modello del bello, sfrontato e determinato. Nel ciclismo è tutto ribaltato. L’amato, il prescelto è il “grimpeur” come dicono i francesi.
Pantani infiammò l’Italia, la sua popolarità fu straripante, superando anche quelle dei calciatori. Colpiva l’immaginario collettivo. La sua figura era iconica perché normale: magro all’inverosimile, senza capelli, sguardo triste, sembrava che piangesse sempre. Eppure sprigionava ardore e passione. Ecco la sfida di un uomo minuto alla montagna alta e imperiosa, ecco la pulsione di andare in fuga, ecco  l’impresa, probabilmente, fine a stessa, poiché avrebbe vinto un altro: il calcolatore, colui che si gestiva e risparmiava le forze. Ma per gli appassionati contava il coraggio, e la certezza che quando la strada cominciava a salire, sulle pendenze più ripide Pantani sarebbe partito.
Diceva: “Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”
Ma dopo l’altare arrivò inesorabile la polvere. Mentre stava vincendo il Giro d’Italia del 1999 venne fermato per doping. Fu il crollo. All’epoca lo sport era diventato spettacolo, utilizzato e consumato. Scorrevano fiumi di denaro, gli sponsor erano eufemisticamente prodighi e numerosi. Il ciclismo era l’anello debole, vulnerabile. La scienza irruppe in maniera poderosa. Si voleva l’atleta perfetto, forte e vincente. Certo fare 200 km solo con acqua minerale, tenere certe medie era sospetto. Ma la ferula dell’antidoping si abbatté, con forza e pubblico dileggio, solo per i ciclisti. E nel calcio? Tutti innocenti? Solo pane e acqua? Scevri di ogni sorta di moralismo bisognava: avere regole uguali per tutti, in tutti gli sport.
La storia di Marco Pantani finisce in tragedia, mette fine all’esistenza di un uomo, e diventa cronaca nera, avvolta da misteri. Il 14 febbraio 2004 a Rimini, “Pantadattilo” come lo soprannominava Giani Mura, muore.
Scrive Jack Kerouac: “Qual è la tua strada amico… la strada del santo. La strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. È una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi”.