Ancora ci si indigna o ci si esalta per il Pallone d’Oro,
premio novecentesco al miglior calciatore dell’anno. Non ne vale la pena. È
chiaro che è una boiata in partenza, con un riconoscimento individuale a un
tizio che gioca con altri undici (ormai sedici con i cinque cambi). Undici o
sedici che cambiano squadra a rotta di collo, trascinati per il mondo dal soldo
sovrano. Messi, per dire, l’ha vinto in una stagione, questa, che l’ha visto
per metà a Barcellona e per metà a Parigi, più gli intermezzi con l’Argentina.
Almeno lui è stato il migliore della Copa America, vinta da trascinatore a suon
di gol e assist. Ma ormai non si capisce più se il premio sia alla carriera, a quanto un giocatore sa fare per conto suo facendo estrazione da tutto e tutti
(in questo senso la Pulce è la migliore), oppure al rendimento della squadra in
cui gioca. Barcellona e PSG non hanno vinto niente, se non la gara dei soldi
bruciati e spesi. Vinto nulla nemmeno Lewandowski (i titoli nazionali del
Bayern non contano, sono gare di birre nelle quali la Baviera domina per
annegamento degli avversari). Jorginho sì che ha vinto con l’Italia, ma in
autunno è naufragato. L’incazzatissimo Ronaldo, zero pure lui, oltretutto in un
club, la Juve, che ha il primato mondiale dell’alienazione di simpatie sportive
e politiche.
Quindi resterebbe il valore intrinseco (Messi per sempre,
già detto) delle giocate annuali. E allora, come non darlo a Salah del
Liverpool (settimo), giocatore maradoneggiante dalle giocate visionarie? Non si
sa, forse perché gli egizi sono fuori moda.
Comunque, i premiati sono sempre attaccanti con qualche
centrocampista a intrufolarsi qua e là. I giurati sono tizi che immaginano una
squadra fatta da undici, o sedici, egoistoni d’attacco, una formazione che
perderebbe dieci partite su dieci e che stazionerebbe capricciosa in area
avversaria pestandosi i piedi e rifiutandosi di scendere nella propria metà
campo.
In conclusione, teniamocelo pure questo Pallone d’Oro, così
lontano dalle emozioni e così soggettivo: ma teniamo a mente che è una delle
tante pagliacciate da scrivania, un’elaborazione da salotto, dove i libri
contabili e le trattative valgono più di una rovesciata, di un passaggio
geniale, di un massaggio cardiaco o di un salvataggio sulla linea di porta.
O di una lotta sublime nel fango di Acerra, come quella del
D10s che il Pallone d’Oro non l’ha mai vinto e magari non l’avrebbe neppure
ritirato, in spregio alla politica e alle disuguaglianze. Voilà.