Le vacanze di Natale sono la morte dello sport, tra dolorosi
vuoti agonistici e abbuffate che evolvono in adipe. Ovviamente, come il
prezzemolo che va con tutto, ci si mette anche il virus, quel coso invisibile
che ci ricaccia in casa neanche fosse un esercito napoleonico in fregola.
L’Epifania è arrivata e tutte le amarezze porta via? Non esattamente, anzi,
nella calzetta appesa al camino (fiacco pure lui, con ‘sti climi pre-tropici)
ci ha infilato un Ambrì senza Spengler e in quarantena che poi si ripresenta
dalla prigione del Monopoli in stile abate Faria, con le unghie consumate a
furia di grattare il fondo del barile.
Col calcio nostrano ancora ai box per la pausa, che in
questo caso pare una benedizione, gli altri tornei sono andati avanti in una
specie di schizofrenia: stadi zeppi, stadi vuoti, stadi a metà come i
malinconici bicchieri di un bagordo svanito per sfinimento, squadre zeppe di
ragazzini sbranati dall’urgenza, partite rinviate che per recuperarle ci vuole
un’altra vita (Battiato ha sempre ragione), allenatori che passano più tempo in
tribuna che in campo tra squalifiche e pestilenze.
Un altro bel dono di quella megera è il Djokovic che spara
balle a destra e a manca per poter entrare bello impunito in Australia, nazione
che sbarra le porte a chiunque dimenticandosi di essere stata colonizzata da
tutti gli avanzi di galera dell’Impero Britannico.
Ci siamo buttati sullo sci, con la pista di Zagabria, vuota
di pubblico e con le foglie secche a volare in faccia agli atleti, in
pericoloso equilibrio su una lingua di neve talmente marcia che sembrava caduta
nel secolo scorso e mantenuta in vita con un misterioso processo di
imbalsamazione. Una folgorante dicotomia con Adelboden, dove la neve era così
prosperosa da far pensare alla sepoltura di ogni prudenza e allora tutti lì, in
ventimila a pazziare sfidando il freddo senza mascherine fighette.
Poi rinascerà tutto come una mandria di cervi a primavera,
okay, ma intanto è in ginocchio perfino la nostra ombra. Buon anno, comunque.