Secondo me, come sempre: i calciatori professionisti sono
lavoratori pagati così bene da dover rinunciare a tutto, compresa la libertà. E
con essa se ne va la cultura, la vita, la misura, gli altri. Prendiamo come
esempio il caso Vlahovic, che è l’ultimo e fresco ma vale per tutti: perché
lascia Firenze per Torino? Perché Firenze non la conosce, non conosce la gente
che ci vive, non si relaziona, non ne respira l’aria, non si siede in un
baretto di San Frediano, non cammina fino a Piazzale Michelangelo, non si
attarda nelle dolci sere toscane a dibattere con la gente che la popola, non
sente il suo cuore riempirsi dalla millenaria appartenenza a un modo di essere
e fare. Si allena, gioca, segna, esulta e torna a rinchiudersi in casa. A
Torino sarà uguale. Una vita da recluso con qualche ora d’aria in luoghi
sgombrati da altre presenze: un ristorante vuoto solo per lui, un parco
disabitato. E sarebbe uguale se fosse a Parigi, Londra, Toronto o a Buenos
Aires. Anche a Belgrado.
Il metro non è la vita che si completa, ma solo quella dei prigionieri
e allora tanto vale basare tutto sui soldi e la gloria. In questi termini di
ragionamento hanno sbagliato tutto anche i club, depositari della sacra arte
del gioco e nel contempo traditori. Non hanno capito che per trattenere un
giocatore serve la simbiosi con il posto in cui vive, la libertà della gioventù
che fuori dal campo fa ciò che vuole e trova mille modi per amarlo, quel luogo,
e sentire che è quell’aria, quel sentire, che anima la squadra che lo
rappresenta.
È una cosa difficile, si chiama condivisione, quella che
forma l’identità e tracima nell’empatia e nella gioia che nasce dall’avere una
vita piena di cose grandi e piccole, in comunità. I club, non capendo questo
valore, danno al giocatore un prezzo, lui lo accetta e ritorna in prigione, una
nuova ma terribile come quella precedente. Durante la quale scriverà la sua
biografia, come un Silvio Pellico minore.