Non è proprio il corpo di una vergine, la sede della finale
di Champions League, ma ci si fa lotteria lo stesso. Prevista a Pietroburgo,
rischia di essere sottratta alla Capitale degli Zar, al cui club si vuole
assolutamente ascrivere anche il moderato (Ras)Putin per un minimo di gloria
personale. Boris Johnson, altro protagonista discreto della scena
internazionale, la vorrebbe a Londra e ha proposto un accalorato intervento in
Parlamento che Churchill ne va orgoglioso dall’Oltretomba. Il presidente dell’Uefa
Ceferin, dalla lontana Slovenia, temporeggia, vuole prima vedere qualche
bombardamentino: “La Uefa sta monitorando in maniera costante e da vicino la
situazione. Al momento, non ci sono piani per cambiare la sede”. Quanto “da vicino”
non si sa, ma immaginiamo che siano lì con gli elmetti, minimo.
Insomma, non si fa politica col corpo quasi virginale dello
sport, non si transige e lo si capisce dalle assegnazioni dei vari eventi, dati
a paesi notoriamente neutrali e rispettosi dei diritti umani come la Cina o il
Qatar. Inutile dunque, per ora, correre a sedi alternative tipo, per dire,
Tirana, Biberbrugg, L’Aquila, Paros o altre prestigiose piazze calcistiche.
Resta Pietroburgo, che potrà benissimo essere raggiunta sorvolando l’Ucraina a
ventimila metri d’altezza, da dove non si vede fin quaggiù.
Che poi forse entro il 28 maggio, data della finale, la
guerra sarà finita (o nemmeno cominciata) e il popolo telemondiale avrà urgenza
di svago e di un po’ di propaganda sui nuovi confini concordati pacificamente.