CALCIO
Il piombo dello sport
Riflessioni di un giornalista che deve fare il suo lavoro con la testa altrove
Pubblicato il 14.03.2022 10:00
di Giorgio Genetelli
Mi è difficile parlare di sport, è il mio lavoro, ma come spesso accade il lavoro fa molto male. So che il Direttore capisce, ma a me sembra comunque di rubare lo "stipendio" a causa dello scatafascio che mi provoca la guerra e la sopraffazione del più debole. Mi rendo conto che anche lo sport è fatto così, meno cruento ma altrettanto crudele: vincitori e vinti. Ieri le due squadre che ho seguito sono entrate in campo mescolate e unite, in fila indiana, un giocatore del Basilea, uno del Servette, uno del Basilea e così via, in una linea retta come opposizione alla barbarie. Questa gentile e silente protesta invece di confortarmi ha peggiorato il mio animo.
Ho inserito quello che io chiamo il pilota automatico, che è una specie di schizofrenia. Il me stesso 1 arzigogolava con passione sulle vicende di campo, il me stesso 2 se ne stava rintanato nel sottosuolo. Non mi sono chiesto come si sentissero quelli che ascoltavano e vedevano la partita da casa, se anche loro trovassero stridente quella rappresentazione di giochi e colori, la sentissero come una futilità o peggio, come un affronto. Sono andato avanti, come quelli in campo, con una forma di senso del dovere, da sviluppare al meglio perché il me stesso 3, il più resistente, lo imponeva.
Durante la Seconda Guerra Mondiale lo sport non poté farsi ambasciatore della pace e della comunione tra i popoli, tutto o quasi venne annullato o sospeso in un tempo rovente. Ora, per ora, invece andiamo avanti, un carrozzone di disperati a modo nostro che devono comunque cantare le loro canzoni. Siamo come partigiani, tutti.
Ho concluso stremato, addormentato sul treno verso casa, sognando treni piombati e bambine aggrappate alle bambole di pezza.