Calcio: Più che un tecnico un condottiero
Mou, quando un uomo solo prende il comando di una società
Nato il 26 gennaio 1963, è uno degli allenatori più controversi: o lo sia ama o lo si detesta
Pubblicato il 26.01.2021 12:41
di Angelo Lungo
Prendete uno sport popolare che scatena passioni fino all’inverosimile, che suscita un attaccamento identitario oltremisura, che è diventato un’industria: i club di calcio più importanti hanno fatturati milionari. Considerate che i giocatori, nell’immaginario collettivo, sono degli status symbol, alla stregua di attori e cantanti, e che sono dei giovanotti già ricchi in giovane età, con mille distrazioni possibili. Ebbene c’è un uomo che li deve gestire, sportivamente, e che deve rendere conto del suo operato alla società: l’allenatore.
E c’è un allenatore che si ritiene “speciale”: José Mourinho, nato il 26 gennaio 1963 a Setubal. Dopo aver tentato di intraprendere la carriera di calciatore, a 24 anni la interrompe. Si laurea, e prende la decisione di allenare. Fa parte della categoria di quei tecnici che non hanno mai giocato a grandi livelli, alla stregua di Sacchi, Zeman,  Benitez e Sarri. Ambizioso e sicuro di sé: “Non sono il migliore del mondo, ma penso che nessuno sia meglio di me”.
Schemi e tattica per lui sembrano dei dettagli, il suo gioco esaspera, amplifica i difetti dell’avversario, conta sulla determinazione e sull’abnegazione dei suoi calciatori, li stimola, li compatta, li spinge a superare i propri limiti e a credere nell’impresa.
“Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d’Europa e credo di essere speciale. Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto: una bella sedia blu, una Champions League, Dio, e dopo Dio, io”, queste le sue parole quando si trasferisce al Chelsea.
Vince il titolo in quattro paesi diversi, Portogallo, Inghilterra, Italia e Spagna. Chiamato a dirigere anche Real Madrid e Manchester United, il meglio lo esprime con Porto e Inter, in club dove lui prende il sopravvento, è lui che detta la linea a società e giocatori, è lui che diventa un condottiero.
L’avventura italiana è emblematica: colto, poliglotta, spiazza subitaneamente i giornalisti. Abilissimo comunicatore, provocatore, convoglia sulla sua persona le polemiche, si dichiara anticonformista e rifugge dalle banalità. Le sue conferenze stampa diventano degli eventi.
“Penso di avere un problema, sto diventando sempre più bravo in ogni aspetto del mio lavoro… Mi sento sempre meglio. In una cosa però non sono cambiato: quando affronto la stampa, non sono mai ipocrita”.
All’Inter conosce la simbiosi perfetta con giocatori, proprietà e soprattutto tifosi, si esalta ed esalta, accentra consapevolmente l’attenzione, d’altra parte il carisma non gli difetta, diventa un capitano di ventura.
Prima della semifinale di Champions contro il Barcellona spiega: “Vogliamo inseguire un sogno, è vero, ma una cosa è inseguire un sogno ed un’altra cosa è inseguire un’ossessione e questa non è un’ossessione, è solamente un sogno”.
Così recitava uno striscione dei tifosi dell’Inter, qualche anno dopo la sua partenza da Milano: “Dopo Mourinho ci sentiamo orfani di qualcuno che sappia trasmettere il senso di appartenenza a questi colori”.
E poi si dice che il calcio sia solo uno sport, uno spettacolo.