SPORT E MENTE
Lasciare lo sport, tra scelta e obbligo
Gli esempi di Barty, Ibra, Wawrinka e tanti altri: ne abbiamo parlato con Lisa Bühler
Pubblicato il 25.03.2022 12:45
di L.S.
Lasciare il tennis a 25 anni essendo la numero 1 al mondo.
Lo ha fatto negli scorsi giorni Ashleigh Barty, la ragazza australiana che dopo aver vinto Wimbledon e gli Australian Open, ha deciso di dire basta.
“Non ho più le motivazioni: ho vinto quello che c’era da vincere e questo è il momento perfetto per lasciare”.
Una di quelle notizie non sempre facili da capire e interpretare.
Perché la più brava al mondo, al top delle sue performances e della fama, molla tutto di colpo?
A dire la verità, Barty aveva già abbandonato il tennis nel 2014 per dedicarsi al cricket, prima di tornare sui suoi passi.  
Ma questa volta pare che sia una scelta definitiva, senza possibilità di ripensamenti.
Di questa decisione e di altro ancora ne abbiamo parlato con Lisa Bühler, mental trainer.
Lisa, sorpresa dalla decisione della Barty?
“Di solito quando si arriva a prendere decisioni del genere è perché dietro c’è un lungo percorso. Probabilmente l’atleta arriva a un punto in cui non è più in grado di reggere le pressioni e i ritmi di questa vita. Quando si conosce la storia della persona, si arriva a individuare quegli elementi che poi agevolano la transizione e la scelta di lasciare”.
Lasciare da prima della classe può apparire ancora più strano, no?
“Barty aveva già lasciato il tennis una volta, a dimostrazione dell’esistenza di un malessere di fondo. Erano state le prime avvisaglie. Quel tipo di vita non è facile, tra la pressione per i risultati, i lunghi viaggi e le fatica fisica. Negli sport individuali il dispendio, a tutti i livelli, è ancora maggiore rispetto a quelli di squadra. Probabilmente essendo arrivata all’apice aveva capito di non aver più bisogno di andare avanti, non ne sentiva più la necessità. Ci sono persone che appagate con ciò che hanno ottenuto, hanno semplicemente voglia di fare altro nella vita”.
Semplicemente stufa di essere un’atleta?
“Direi che all’identità di atleta, preferisce l’identità della sua persona. Smettere di giocare non significa smettere di vivere, non va vista come una fine. Immagino che nel caso della tennista australiana, lei sia contenta e tranquilla per la scelta che ha fatto. Ne ha parlato sicuramente con il suo entourage e non avere problemi economici può facilitare questa scelta. Mantenere legami socio-affettivi stabili non è facile con questo tipo di vita, sempre lontani da casa e con poco tempo a disposizione. Queste mancanze alla lunga possono pesare”.
E poi c’è Ibrahimovic, che a 40 anni, ammette di essere spaventato dall’idea di lasciare il calcio.
“Il suo problema è diverso ma anche molto semplice. Si è costruito una identità molto forte, di atleta indistruttibile: alla fine ne è diventato un po’ prigioniero. Il tempo però passa per tutti e la natura fa il suo corso. Fisicamente, ancorché molto ben allenato e preparato, non può restare al livello degli altri, dei giocatori più giovani. Riesce a giocare ancora grazie alla sua mentalità e all’esperienza, ma presto nemmeno questo basterà più”.
E il dover smettere gli fa paura.
“Esiste uno studio spagnolo che indica che soltanto il 10 per cento dei giocatori si prepara al dopo carriera. Molti vanno in crisi e stanno male per lungo tempo. Ovviamente è una cosa che non succede soltanto nello sport. Cambiare vita fa paura a molti”.
Ultimo esempio quello di Stan Wawrinka, che questa settimana a Marbella torna a giocare un torneo challenger dopo un lunghissimo stop. E lo fa all’età di 37 anni, da 232 del mondo, dopo essere stato numero 3. Ci vuole una bella motivazione, no?
“Rientrare in tornei “minori” come questo dimostra la grande passione dello sportivo, che si rimette in gioco, ma che nel contempo ha bisogno di sentire l’adrenalina scorrere nel corpo. E la si può sentire anche giocando non per forza ai livelli più alti”.
Per chiudere: come si capisce, o intuisce, quando un atleta inizia ad avere dei problemi?
“Il campanello d’allarme scatta quando inizia a mancare un po’ la motivazione: spesso l’atleta deve ricorrere troppo all’autodisciplina, che non riesce più a compensare con l’entusiasmo per ciò che sta facendo. Allora lì bisogna scavare e capire le motivazioni del malessere”.
(Nella foto Barty, Ibrahimovic, Wawrinka e la mental trainer Lisa Bühler)