Dimenticatevi lo
stereotipo del giocatore con la playstation.
Ci sono, per
fortuna, anche quelli che il tempo libero lo occupano, o lo occupavano, in un
altro modo.
Uno di questi è
stato Benoit Pont, ex giocatore dell’Ambrì Piotta, che unitamente alla carriera
di hockeista è stato capace di terminare gli studi.
Studi, quelli
portati a termine all’Università di Neuchâtel in Biologia e Scienza dello
sport, che gli hanno cambiato la vita.
Un po’ come
quella gomitata che nel 2007 Landon Wilson gli rifilò alla Resega durante un
derby. Un colpo che mise fine alla sua carriera.
“Sono cose che in
questo gioco succedono purtroppo, anche se non dovrebbero. Bisogna accettarle e
andare avanti. Non ho mai pensato se era il caso di perdonare o meno Wilson,
anche perché so che il suo non era un intervento premeditato. Sono cose che
possono succedere”.
Sono passati 15
anni da quell’episodio e nelle piste continuano a vedersi queste cose.
“Qualcosa in
questi anni è migliorato, mi sembra che ci sia più rispetto tra i giocatori.
Alla nostra generazione si insegnava a chiudere sempre i “check”, a essere
quasi più distruttivi che costruttivi. Era la mentalità che arrivava dal
Canada. Ogni tanto questi brutti interventi li vediamo ancora ma credo siano
soprattutto figli della voglia di fare le cose sempre più velocemente”.
Sembrerebbe
strano da dirsi eppure quella commozione cerebrale, che decretò la fine della
carriera di Pont, non fu così disastrosa nella vita del giocatore.
“Ci sono sempre
degli eventi difficili che non si possono controllare. Ciò che si può
controllare è invece il modo in cui si può reagire. È stato duro lasciare la
vita di giocatore ma quell’episodio mi ha reso più forte e mi ha dato altre
opportunità”.
È normale, a
distanza di anni, chiedere a un giocatore un bilancio della propria carriera.
Pont, inizia qui a rivelare la sua vera natura di sportivo e studioso del
comportamento umano.
“Nella vita
bisogna scegliere se vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Potrei
pensare che se non avessi avuto qualche infortunio magari avrei potuto fare di
più, ma nella vita è inutile. Ci sarà sempre un “se” e un “ma”. La cosa
importante è che a distanza di anni sono ancora qui e vivo ancora della mia
passione. Non sono in tanti a poter fare ciò che amano e io mi sento davvero
fortunato”.
Proprio i
genitori hanno avuto un ruolo importante nelle sue scelte.
“Sono sempre
stati contenti che giocassi a hockey ma parallelamente volevano che continuassi
gli studi. Mio papà era professore di scienze e matematica all’Università e per
me è sempre stato un esempio da seguire. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che
avrei continuato a studiare per avere una vita oltre l’hockey. Anzi, non
pensavo di restare in questo mondo ma gli eventi mi hanno portato ad essere
ancora qui. E ne sono estremamente felice”.
La metafora della
montagna gli piace tantissimo, forse perché il papà è stato anche una guida alpina.
“Sì, perché la
vita è un po’ come scalare una montagna. Guardi la cima e pensi alla distanza
che devi ancora fare o guardi sotto e sei orgoglioso dei passi che hai percorso
fin lì? Penso sia importante guardare in alto e porsi nuovi obiettivi, ma
quello che ci rende forte è anche il cammino che abbiamo percorso fin lì. Sono
le nostre azioni che ci definiscono”.
Un modo di
pensare che in questo triste periodo per l’umanità può senza dubbio venire
utile.
“Ci si rende
conto di ciò che si ha, soltanto quando lo si perde. Anche se è normale voler
sempre di più, bisogna saper apprezzare ciò che si ha oggi. Se seguiamo questa
logica e anche se con il Covid abbiamo perso tanto, bisogna apprezzare ciò che
non si è perso…”.
E il mondo
dell’hockey come ha reagito a questa pandemia?
“Dopo un inizio
difficile, in cui i giocatori erano un po’ scombussolati, credo che ora siano
molto contenti di poter svolgere la loro professione, anche senza gente sugli
spalti. Credo che si siano accorti di essere dei privilegiati e di poter praticare
lo sport e il mestiere più bello del mondo”.
Uno sport,
l’hockey, che Pont ha imparato ad amare anche al di fuori della pista. E sfruttando
le conoscenze acquisite durante e dopo la carriera, aiuta gli atleti a
migliorare le proprie prestazioni. Di giovani giocatori ma anche di professionisti
e superstars come Josi, Niederreiter, Weber, Haas, Anisimov e tanti altri.
Ma di cosa si
tratta? Riassumerlo in due parole è veramente difficile. Forse in una è più
semplice: individualizzazione.
“Abbiamo
sviluppato un approccio di “profiling & Personal Coaching”, secondo un
sistema che si chiama “Action Types”. Significa che ci sono differenti profili
di giocatori e diverse preferenze motrici. I giocatori con delle motricità
diverse hanno bisogni diversi. Noi siamo in grado di dimostrarlo fisicamente e
di misurare tutto ciò. Le conseguenze per l’allenamento e lo sviluppo dei
giocatori sono enormi, anche se la maggior parte dei club e degli “skill coach”
li ignora ancora. Conosco bene le teorie degli allenamenti avendo diretto la
formazione degli allenatori in Svizzera per 10 anni. La mia constatazione è
questa: la stessa tecnica di allenamento per tutti è ormai qualcosa di ormai
sorpassato”.
E come si può concretamente migliorare?
“Una volta che il
profilo è completato, può iniziare il lavoro di individualizzazione. Il
giocatore o la persona (questo metodo si applica a tutti) impara a conoscere i
propri punti forti e a utilizzare dentro e fuori dal ghiaccio. Abbiamo anche
sviluppato un approccio E-Learning Online dove la persona può imparare i punti
forti che emergono dal suo profilo. Noi seguiamo anche dei giocatori in maniera
più personale e facciamo delle consulenze per delle aziende”.
Anche giocatori
che morfologicamente si assomigliano, possono invece essere molto diversi tra
di loro.
“Prendiamo
l’esempio dei fratelli gemelli Neunschwander: sono geneticamente uguali ma non
hanno lo stesso profilo. Abbiamo dimostrato e misurato che con la “tecnica
Ovechkin”, Anthony sprigiona il 20% di potenza in più nei suoi tiri che
utilizzando la “tecnica Crosby”. Per suo fratello Joël è l’esatto contrario. Tutto
ciò ci spinge a una riflessione sulla vera individualizzazione. La stessa
tecnica si adatta alle persone che hanno lo stesso profilo, che sia nel
pattinaggio, nella corsa o nel tennis. Abbiamo anche constatato che gli stessi
profili hanno spesso i medesimi infortuni e ciò è interessante per una migliore
prevenzione degli infortuni”.
L’avesse
utilizzata Lei ai suoi tempi questa tecnica?
“Si avessi potuto
utilizzare questa tecnica, avrei potuto evitare il 50% dei miei infortuni, ne
sono sicuro. Un allenamento adatto alla motricità dell’atleta è molto più
naturale. Avrei evitato anche la metà delle mie commozioni cerebrali e sappiamo
quanto la ripetizioni di queste commissioni sia importante. Ma è inutile
parlare con i se e i ma, io sono molto fiero della carriera che fatto”.
E le squadre come
vivono questo nuovo approccio? Lei per esempio lavora con l’Ambrì Piotta da
ormai tre anni.
“Il lavoro con le
squadre ha un grande valore, poiché i contenuti arrivano indirettamente anche
ai giocatori. Ma tutto ciò richiede anche molte risorse. L’Ambrì è un club che
ci mette molto cuore in ciò che fa, che crede e investe nei suoi giocatori.
Abbiamo subito creduto nel nostro approccio anche se per ora abbiamo
implementato in Leventina soltanto una parte del nostro approccio. Spero che
potremo fare ancora di più in futuro, soprattutto per quanto riguarda il lavoro
sul ghiaccio”.