HOCKEY: L'EX GIOCATORE DELL'AMBRÌ CI RACCONTA LA SUA "NUOVA" VITA
Pont, da giocatore a studioso dell'hockey
L'ex Ambrì, che chiuse la carriera con una commozione, lavora con una tecnica innovativa
Pubblicato il 31.01.2021 10:16
di Luca Sciarini
Dimenticatevi lo stereotipo del giocatore con la playstation.
Ci sono, per fortuna, anche quelli che il tempo libero lo occupano, o lo occupavano, in un altro modo.
Uno di questi è stato Benoit Pont, ex giocatore dell’Ambrì Piotta, che unitamente alla carriera di hockeista è stato capace di terminare gli studi.
Studi, quelli portati a termine all’Università di Neuchâtel in Biologia e Scienza dello sport, che gli hanno cambiato la vita.
Un po’ come quella gomitata che nel 2007 Landon Wilson gli rifilò alla Resega durante un derby. Un colpo che mise fine alla sua carriera.
“Sono cose che in questo gioco succedono purtroppo, anche se non dovrebbero. Bisogna accettarle e andare avanti. Non ho mai pensato se era il caso di perdonare o meno Wilson, anche perché so che il suo non era un intervento premeditato. Sono cose che possono succedere”.
Sono passati 15 anni da quell’episodio e nelle piste continuano a vedersi queste cose.
“Qualcosa in questi anni è migliorato, mi sembra che ci sia più rispetto tra i giocatori. Alla nostra generazione si insegnava a chiudere sempre i “check”, a essere quasi più distruttivi che costruttivi. Era la mentalità che arrivava dal Canada. Ogni tanto questi brutti interventi li vediamo ancora ma credo siano soprattutto figli della voglia di fare le cose sempre più velocemente”.
Sembrerebbe strano da dirsi eppure quella commozione cerebrale, che decretò la fine della carriera di Pont, non fu così disastrosa nella vita del giocatore.
“Ci sono sempre degli eventi difficili che non si possono controllare. Ciò che si può controllare è invece il modo in cui si può reagire. È stato duro lasciare la vita di giocatore ma quell’episodio mi ha reso più forte e mi ha dato altre opportunità”.
È normale, a distanza di anni, chiedere a un giocatore un bilancio della propria carriera. Pont, inizia qui a rivelare la sua vera natura di sportivo e studioso del comportamento umano.
“Nella vita bisogna scegliere se vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Potrei pensare che se non avessi avuto qualche infortunio magari avrei potuto fare di più, ma nella vita è inutile. Ci sarà sempre un “se” e un “ma”. La cosa importante è che a distanza di anni sono ancora qui e vivo ancora della mia passione. Non sono in tanti a poter fare ciò che amano e io mi sento davvero fortunato”.
Proprio i genitori hanno avuto un ruolo importante nelle sue scelte.
“Sono sempre stati contenti che giocassi a hockey ma parallelamente volevano che continuassi gli studi. Mio papà era professore di scienze e matematica all’Università e per me è sempre stato un esempio da seguire. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che avrei continuato a studiare per avere una vita oltre l’hockey. Anzi, non pensavo di restare in questo mondo ma gli eventi mi hanno portato ad essere ancora qui. E ne sono estremamente felice”.
La metafora della montagna gli piace tantissimo, forse perché il papà è stato anche una guida alpina.
“Sì, perché la vita è un po’ come scalare una montagna. Guardi la cima e pensi alla distanza che devi ancora fare o guardi sotto e sei orgoglioso dei passi che hai percorso fin lì? Penso sia importante guardare in alto e porsi nuovi obiettivi, ma quello che ci rende forte è anche il cammino che abbiamo percorso fin lì. Sono le nostre azioni che ci definiscono”.
Un modo di pensare che in questo triste periodo per l’umanità può senza dubbio venire utile.
“Ci si rende conto di ciò che si ha, soltanto quando lo si perde. Anche se è normale voler sempre di più, bisogna saper apprezzare ciò che si ha oggi. Se seguiamo questa logica e anche se con il Covid abbiamo perso tanto, bisogna apprezzare ciò che non si è perso…”.
E il mondo dell’hockey come ha reagito a questa pandemia?
“Dopo un inizio difficile, in cui i giocatori erano un po’ scombussolati, credo che ora siano molto contenti di poter svolgere la loro professione, anche senza gente sugli spalti. Credo che si siano accorti di essere dei privilegiati e di poter praticare lo sport e il mestiere più bello del mondo”.
Uno sport, l’hockey, che Pont ha imparato ad amare anche al di fuori della pista. E sfruttando le conoscenze acquisite durante e dopo la carriera, aiuta gli atleti a migliorare le proprie prestazioni. Di giovani giocatori ma anche di professionisti e superstars come Josi, Niederreiter, Weber, Haas, Anisimov e tanti altri.
Ma di cosa si tratta? Riassumerlo in due parole è veramente difficile. Forse in una è più semplice: individualizzazione.
“Abbiamo sviluppato un approccio di “profiling & Personal Coaching”, secondo un sistema che si chiama “Action Types”. Significa che ci sono differenti profili di giocatori e diverse preferenze motrici. I giocatori con delle motricità diverse hanno bisogni diversi. Noi siamo in grado di dimostrarlo fisicamente e di misurare tutto ciò. Le conseguenze per l’allenamento e lo sviluppo dei giocatori sono enormi, anche se la maggior parte dei club e degli “skill coach” li ignora ancora. Conosco bene le teorie degli allenamenti avendo diretto la formazione degli allenatori in Svizzera per 10 anni. La mia constatazione è questa: la stessa tecnica di allenamento per tutti è ormai qualcosa di ormai sorpassato”.
E come si può concretamente migliorare?
“Una volta che il profilo è completato, può iniziare il lavoro di individualizzazione. Il giocatore o la persona (questo metodo si applica a tutti) impara a conoscere i propri punti forti e a utilizzare dentro e fuori dal ghiaccio. Abbiamo anche sviluppato un approccio E-Learning Online dove la persona può imparare i punti forti che emergono dal suo profilo. Noi seguiamo anche dei giocatori in maniera più personale e facciamo delle consulenze per delle aziende”.
Anche giocatori che morfologicamente si assomigliano, possono invece essere molto diversi tra di loro.
“Prendiamo l’esempio dei fratelli gemelli Neunschwander: sono geneticamente uguali ma non hanno lo stesso profilo. Abbiamo dimostrato e misurato che con la “tecnica Ovechkin”, Anthony sprigiona il 20% di potenza in più nei suoi tiri che utilizzando la “tecnica Crosby”. Per suo fratello Joël è l’esatto contrario. Tutto ciò ci spinge a una riflessione sulla vera individualizzazione. La stessa tecnica si adatta alle persone che hanno lo stesso profilo, che sia nel pattinaggio, nella corsa o nel tennis. Abbiamo anche constatato che gli stessi profili hanno spesso i medesimi infortuni e ciò è interessante per una migliore prevenzione degli infortuni”.
L’avesse utilizzata Lei ai suoi tempi questa tecnica?
“Si avessi potuto utilizzare questa tecnica, avrei potuto evitare il 50% dei miei infortuni, ne sono sicuro. Un allenamento adatto alla motricità dell’atleta è molto più naturale. Avrei evitato anche la metà delle mie commozioni cerebrali e sappiamo quanto la ripetizioni di queste commissioni sia importante. Ma è inutile parlare con i se e i ma, io sono molto fiero della carriera che fatto”.
E le squadre come vivono questo nuovo approccio? Lei per esempio lavora con l’Ambrì Piotta da ormai tre anni.
“Il lavoro con le squadre ha un grande valore, poiché i contenuti arrivano indirettamente anche ai giocatori. Ma tutto ciò richiede anche molte risorse. L’Ambrì è un club che ci mette molto cuore in ciò che fa, che crede e investe nei suoi giocatori. Abbiamo subito creduto nel nostro approccio anche se per ora abbiamo implementato in Leventina soltanto una parte del nostro approccio. Spero che potremo fare ancora di più in futuro, soprattutto per quanto riguarda il lavoro sul ghiaccio”.