CALCIO
"Meglio uscire prima che perdere una finale"
Parla Karl Engel che vinse la Coppa Svizzera nel 1993 sulla panchina del FC Lugano
Pubblicato il 15.05.2022 04:07
di L.S.
Mister finale di Coppa è lui, Karl Engel, che nel 1992 e nel 1993 portò per ben due volte il FC Lugano in finale. Un uomo che è entrato di diritto nella storia del calcio svizzero e ticinese, sia come portiere (anche della nazionale) e poi come allenatore.
Engel, che di finali ne fece sei anche da giocatore (“due volte furono partite ripetute poiché finite in pareggio”), a novembre compirà 70 anni. Il suo libro dei ricordi è pieno di fotografie a colori e in bianco e nero, che ripercorrono una carriera indimenticabile.
Un posto speciale ce l’hanno, come detto, quelle due finali sulla panchina del FC Lugano.
Momenti e emozioni indimenticabili, anche a distanza di 30 anni.
Ma prima di fare un tuffo nei ricordi, Karl vuole fare una premessa: “se vuoi che parliamo di quelle finali e di quei momenti va bene, ma non sono qui a dire cosa deve fare il Lugano in questa partita. Io parlo del passato, di un calcio di 30 anni fa, che ormai possiamo considerare preistoria. Era un modo diverso di giocare a calcio e perciò adesso non voglio sindacare su ciò che devono fare gli allenatori attuali”.
Recepito il messaggio, si parte con con la finale persa al Wankdorf quell’8 giugno del 1992 contro il Lucerna, che era appena stato retrocesso in serie B.
I bianconeri scesero in campo da favoriti, ma qualcosa andò storto. Finì 3-1 ai supplementari.
“Non dimenticherò mai quella partita e soprattutto quelle parole che pronunciai alla vigilia della finale. Dissi che saremmo andati a mangiare il dessert e invece avrei dovuto parlare di piatto principale. A distanza di qualche tempo mi resi conto che non ero stato abbastanza ambizioso”.
Perché quelle parole?
“Arrivavamo da una salvezza ai playout e raggiungere la finale ci sembrava un regalo. Eravamo reduci da un buon girone di ritorno e forse pensavamo inconsciamente di aver già fatto il nostro dovere”.
Un altro errore?
“Senza dubbio la scelta di fare quel mini-ritiro prima delle finali che cambiò radicalmente le nostre abitudini e forse mise un po’ a disagio la squadra. Avremmo dovuto continuare a fare ciò che avevamo sempre fatto, affrontare quella partita come sempre. Cambiare le abitudini non fu una grande idea. L’anno dopo evitai il ritiro e vincemmo. Non so dire però se fu questo il motivo”.
Altri ricordi di quella sconfitta?
“A distanza di anni sono contento che Romagna abbia potuto giocare quella partita. Non è facile per un portiere di riserva affrontare una gara del genere ma l’infortunio di Walker non ci lasciava altra scelta. Lui ha fatto il suo dovere e non c’è la prova che con Walker in porta avremmo vinto. Credo che il fatto di dare fiducia totale a tutti, anche chi entrava o giocava poco, fosse una delle mie qualità migliori. E da un certo punto di vista ne vado un po’ fiero”.
Quanto fa male perdere una finale?
“Fa malissimo. Dirò di più, preferisco uscire in semifinale che perdere la finale. Il giorno dopo mi sono svegliato con un gran vuoto dentro e per giorni ho ripensato a quella partita. Ma poi c’è un momento in cui devi iniziare a reagire, a guardare avanti e così volti pagina e ti concentri su quello che devi fare. Alla fine ti resta il grande insegnamento”.
Insegnamento che poi servì un anno più tardi.
“Se pensiamo alla forza del nostro avversario, mi chiedo ancora adesso come abbiamo fatto a vincere in quel modo la finale. Il Grasshoppers era fortissimo, aveva giocatori di grande classe, ma noi eravamo molto motivati. La squadra dimostrò di avere grande maturità, riproponendo ciò che di buono aveva fatto durante tutto l’anno. Ero tranquillo, sapevo che avremmo fatto una grande partita”.
Era una squadra più forte rispetto a quella dell’anno prima?!
“Non lo so. Direi semplicemente che era una squadra più matura, sia mentalmente che a livello tecnico-tattico. Stiamo parlando di giocatori che erano cresciuti tantissimo in quel periodo e che poi fecero anche le fortune di Morinini, che arrivò a Lugano con una base importante già a disposizione”.
Non ebbe paura di perdere due finali di fila?
“Onestamente no, avevo visto il comportamento della squadra, avevo capito che non avevano dubbi in testa. Non era una questione di riscatto, era un percorso naturale che stavamo affrontando. Sapevamo che il Grasshoppers era fortissimo e che per vincere avremmo dovuto lasciare tutto sul campo. Lo abbiamo fatto e sono contento che i ragazzi abbiano seguito un po’ il mio comportamento”.
Lei ebbe la fortuna di allenare giocatori importanti, vero?
“È proprio così. Li ricordo tutti con grande affetto, anche se è ovvio che allenare Galvao fu qualcosa di indescrivibile. Stiamo parlando di un fenomeno e di un grande professionista. Ma sono molto legato anche a Penzavalli, che mi fece passare delle notti insonni prima della finale. Era il capitano della squadra ma avevo deciso di lasciarlo in panchina quella partita. Non fu una scelta facile. A distanza di anni mi sono scusato e lui mi ha perdonato. E poi c’era Tita Colombo, il mio rappresentante in campo, uno che incarnava il mio modo di pensare e che in campo dava tutto”.
Lei dopo quella Coppa vinta lasciò Lugano, perché?
“Ero stato contattato dal Lucerna, avevo voglia di cambiare aria. Sbagliai, soprattutto perché feci tutto senza dire niente alla società, al presidente Manzoni, che mi aveva dato fiducia nell’affidarmi la panchina. Tornando indietro cercherei di più il dialogo con la dirigenza, avrei spiegato loro che c’era la possibilità di andare a Lucerna ma che forse sarei anche potuto rimanere. Per fortuna che il rapporto con il presidente Manzoni adesso è ancora buonissimo e lo ringrazierò sempre per ciò che ha fatto per me”.
E la festa in piazza riforma se la ricorda ancora?
“Certo, non si può dimenticare. Fu bellissimo vedere l’entusiasmo della gente, ma mi porto ancora nel cuore la sensazione che quella vittoria fu un po’ di tutto il Ticino, al di là del campanilismo”.
Vincere da allenatore è diverso dal vincere come giocatore?
“Assolutamente sì. Vincere un titolo come allenatore è bellissimo, qualcosa di unico. Ti rendi conto che sei il responsabile di un gruppo, che le scelte dipendono da te. Ne ho vinte altre di Coppe ma l’emozione è diversa. È stato il momento più bello della mia carriera, anche se vado molto fiero di quando portai il Basilea nei playoff con una squadra piuttosto modesta”.
Lei ebbe una carriera da allenatore piuttosto corta: non si è mai pentito?
“Dopo l’esonero a Lugano (nella sua seconda esperienza, era il 1998, ndr) ero esausto, letteralmente svuotato. Purtroppo non mi rimisi mai completamente da quella stanchezza mentale e così decisi di lasciare. Un anno fa parlai con Lucien Favre che stava vivendo la stessa cosa: nonostante le tante offerte che aveva ricevuto, aveva bisogno di staccare la spina. È una cosa che succede ogni tanto agli allenatori e personalmente ho ritenuto che senza le energìe necessarie sarebbe stato più corretto ritirarmi”.
Croci-Torti ha detto che il suo sogno è vincere la Coppa.
“Lo capisco benissimo. Stiamo parlando di un ragazzo che nella sua carriera ha sempre lavorato tantissimo, sia a livello mentale che fisico. Mi rivedo un po’ in lui, sia per la passione e l’entusiasmo che ci mette e per il suo atteggiamento in panchina. Gli auguro di riportare la Coppa in Ticino”.
Qual è il segreto per vincere una finale?
“Credo che una buona parte dipenda dalla freschezza mentale. Chi sarà più sereno avrà maggiori possibilità di vincere”.