Oh, puoi far scorrere lo sguardo dove vuoi, ma ovunque c’è
lui, tutto gli ruota intorno e tu sei nel vortice. Lionel Messi è
soprannaturale, come altri artisti lo sono stati nel pieno svolgimento di sé
stessi, da Lennon a De Niro, per dirne due che riconosceresti da una sillaba. Messi
a Wembley ha dipinto e scolpito in presa diretta, con sublimi momenti di
riflessione e ricerca a passo d’uomo, seguiti da squarci dalla luce abbagliante
accumulata e poi regalata. Era qui e poi era lì, tocchi di prima con la
delicatezza dell’amore, resistenze col corpo che sfrutta la forza
dell’avversario, la fa sua e la sprigiona per i suoi gesti inavvicinabili. Non
ha segnato, ma ha fatto segnare Lautaro e Dybala. Non ha segnato ma cosa importa?
Il gol è per i materialisti, l’aiuto agli altri è il sale del gioco.
Anche Messi ha bisogno degli altri, sì, certo. Deve stare
dentro una squadra che ami sé stessa, come il Barcellona e questa Argentina che
si affida a lui e si spreme divorando gli avversari, squarciando il pallone e
perfino esibendo magie, contagiata com’è dalla grazia del numero 10. Il numero
10, da portare in campo con tutta la storia del calcio, della sua bellezza,
baciando Maradona a ogni invenzione, illuminato da una luce che si vede dal
posto più lontano dello stadio e del mondo, plasmando idee senza tempo, senza
affanno.
In troppi hanno scambiato il Messi afflitto del Paris
Saint-Germain per un giocatore che sta per tramontare, senza tenere conto che
quella non è una squadra vera, ma un puzzle con le tessere che non si
incastrano e vorrebbero essere più numerose del quadrato che le contiene.
Messi non tramonta, non tramonterà. In quel suo modo di
sentire il gioco potrà andare avanti cent’anni, magari in solitudine, ma sempre
pervaso dalla felicità e dalla bellezza. E noi, a costo di perdere dentiera e
protesi all’anca, saremo lì a cadere in ginocchio davanti alle sue opere.