Gli
anni Settanta partirono come provocazione, volevano essere
rivoluzionari, diventarono decadenti. Furono preceduti dagli anni
Sessanta, quelli dello sviluppo e della speranza; furono seguiti
dagli anni Ottanta, quelli effimeri e voluttuosi.
Irruppero
i giovani. Mettevano in discussione la Legge del Padre: intendevano
sovvertire e demistificare. Si anelava un mondo libero. Si contestava
la famiglia: considerata un coacervo di ipocrisie.
Il
calcio era già un rito sociale. Imperava la stampa scritta. I
giornalisti erano cantori, cesellatori del paragrafo, stimolavano
l'immaginazione e riportavano imprese e gesta in maniera
immaginifica.
La
radio era popolare. Invadeva tutte le case. Le partite erano una
celebrazione laica.
E
arrivava la televisione, che cominciava a segnare il
campo. Si stava passando dal bianco e nero ai colori.
Jannacci
cantava “Messico e nuvole” e proprio nel continente americano si
tenevano i Mondiali.
Il
17 giugno 1970, allo stadio Azteca di Città del Messico, andò in
scena la semifinale tra Italia e Germania. Il 4-3 più famoso della
storia, una partita, che finì ai supplementari, divenuta epica.
Sbloccò l'incontro Roberto Boninsegna, detto Bonimba, all'8' del
primo tempo. Secondo le cronache i 90 minuti furono noiosi. A tempo
scaduto pareggiò Karl-Heinz Schnellinger, era un difensore, si stava
avviando verso lo spogliatoio, si trovò in area e segnò. Iniziarono
i tempi supplementari e l'incontrò diventò storico. Il gol decisivo
lo realizzò Gianni Rivera, detto l'Abatino, insultato, pochi minuti
prima, da Albertosi perché non aveva coperto il palo sul gol del 3-3
di Gerd Müller. Franz Beckenbauer giocava con una vistosa benda alla
spalla, vittima di un serio infortunio.
In
finale gli azzurri furono poi sconfitti dal Brasile di Pelé per 4-1.
Fu l'ultima edizione a chiamarsi Coppa del Mondo Jules Rimet. I
sudamericani si aggiudicarono il trofeo, poiché era il loro terzo
trionfo. Dall'edizione successiva la dicitura divenne: Coppa del
Mondo FIFA.
Certo
come cantava Roberto Vecchioni erano: “Bei tempi”.
Ma
lo scrittore Milan Kundera ci rammenta che: “Il tempo umano non
ruota in cerchio ma avanza lento in linea retta. È per questo che
l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di
ripetizione”.