La
vittoria finale del Mondiale segue, quasi sempre, logiche
prevedibili. Gli Europei hanno, invece, proposto l'imprevisto.
L'inatteso che stupisce, il pronostico sovvertito. Lo testimoniano i
casi della Danimarca o quello della Grecia. Ma la prima grande
sorpresa si ebbe alla rassegna continentale del 1976. Il 20 giugno di
quell'anno allo stadio di Belgrado la Cecoslovacchia sconfisse la
Germania Ovest e conquistò il prestigioso trofeo.
I
pronostici indicavano i favoriti nei tedeschi di Beckenbauer, Maier, Vogts,
Hoeness, Bonhof e negli olandesi di Cruijff, Neeskens, Rep.
Ma
non fu così.
Nell'atto
conclusivo i tempi regolamentari si conclusero sul 2 a 2. Il
risultato non si sbloccò nemmeno durante i supplementari. Furono
necessari i calci di rigore. Si presentò sul dischetto Hoeness, il
fuoriclasse del Bayern, ma sparò alto sulla traversa. Il rigore
decisivo toccò tirarlo ad Antonin Panenka, un centrocampista dotato
di talento e fantasia. Tutti si aspettavano il rispetto del canone,
ma ci sono anche i visionari, quelli che vanno oltre, non temono il
dileggio e osano, si dirigono verso l'orizzonte dell'impensabile.
Rincorsa e tocco morbido sotto il pallone, sfera che si insaccò
centrale, il famoso: “cucchiaio”. Stupore, emozioni sospese,
parossismo e apoteosi. Panenka, dichiarò successivamente, che aveva
provato quel tiro da anni, ma tutti i suoi compagni continuavano a
pregarlo di non farlo.
Coraggio
o incoscienza? Poco importa. È la volontà di esserci nel tempo in
maniera iconoclasta. Capovolgere il punto di osservazione. Farsi
trasportare dall'istinto che confligge con il realismo della
situazione. Quando? Specie nei momenti topici. Tutti reclamano un
comportamento ritenuto normale e invece c'è chi è capace di dire
no.
Il
rigore è una scommessa tra lo zero e l'infinito. Un esercizio che
inganna e lo fa in guisa capziosa. Lo hanno fallito fior di
fuoriclasse.
Panenka
non voleva sfidare nessuno, voleva rammentare che l'umano può essere
esistenzialista: se è capace di sognare e che il calcio è un gioco.
Disse:
“Se lo avessi sbagliato, mi avrebbero spedito a lavorare in
fabbrica per trent'anni di fila”.