Le
Tour de France. La corsa più prestigiosa al mondo si sta correndo.
La strada percorsa dai ciclisti. La fatica di uno sport
autenticamente popolare. Tutto corre veloce e anche lento. Il
ciclismo è anch'esso entrato nel terzo millennio, ma più di altre
discipline riesce a conservare un fascino ancestrale. Un rito che
riesce a mantenere e garantire il canone della tradizione. Racconta
storie di atleti speciali, che hanno una ribalta mediatica limitata.
In
gruppo, nell'attuale stagione, pedala un ciclista-filosofo: Guillaume
Martin. È francese ed è un grimpeur. Aspetta la montagna per
piazzare il suo scatto. Andare in fuga, come lui stesso afferma: “È
una pulsione naturale, un modo per rompere le regole”.
È
laureato in filosofia, ha scritto libri. È il capitano della squadra
della Cofidis. È uno dei protagonisti attesi della Grande Boucle, la
correrà e la racconterà quotidianamente sul giornale “Le Monde”.
Guillaume
ama Nietzsche, specie il suo concetto di “volontà di potenza”:
quella che è capace di dare un senso all'essere umano, è la vita
intesa come forza espansiva. Non è un mero istinto di sopravvivenza
ma una formidabile spinta per autoaffermarsi.
Le
sue riflessioni non sono consolatorie o buoniste: “È illusorio far
credere al pubblico che perdere sia normale. La sconfitta è
dolorosa. Poiché la competizione è durissima”.
In
merito al significato che ha il ciclismo, in guisa icastica, adopera il
pensiero di Kant, quando sostiene: “l'impossibilità di vivere con
gli altri ma anche senza gli altri”.
Il
paradosso di correre assieme a dei compagni, ma poi la vittoria è
solo di uno. Il capitano raccoglie e sa che chiunque vorrebbe essere
al suo posto.
Definisce
il gruppo, 200 uomini che pedalano ore e ore, come: “La società
del plotone. Una superpotenza che per esistere deve distruggere la
particolarità dei suoi membri. Il nemico del gruppo è chi cerca di
andare in fuga”.
Scrive
che nella storia delle due ruote i pochi fuoriclasse hanno un'enorme
stima di se stessi e sono egoisti. Hanno necessità di un lavoro
collettivo, ma il bene supremo è rappresentato solo dal proprio “io”. E non
mitizzano mai l'avversario, perché è un uomo da battere e altro non
può essere considerato.