Ciclismo
Guillaume Martin, ciclista e filosofo
Le riflessioni del corridore francese che sfida il buonismo
Pubblicato il 02.07.2022 07:32
di Angelo Lungo
Le Tour de France. La corsa più prestigiosa al mondo si sta correndo. La strada percorsa dai ciclisti. La fatica di uno sport autenticamente popolare. Tutto corre veloce e anche lento. Il ciclismo è anch'esso entrato nel terzo millennio, ma più di altre discipline riesce a conservare un fascino ancestrale. Un rito che riesce a mantenere e garantire il canone della tradizione. Racconta storie di atleti speciali, che hanno una ribalta mediatica limitata.
In gruppo, nell'attuale stagione, pedala un ciclista-filosofo: Guillaume Martin. È francese ed è un grimpeur. Aspetta la montagna per piazzare il suo scatto. Andare in fuga, come lui stesso afferma: “È una pulsione naturale, un modo per rompere le regole”.
È laureato in filosofia, ha scritto libri. È il capitano della squadra della Cofidis. È uno dei protagonisti attesi della Grande Boucle, la correrà e la racconterà quotidianamente sul giornale “Le Monde”.
Guillaume ama Nietzsche, specie il suo concetto di “volontà di potenza”: quella che è capace di dare un senso all'essere umano, è la vita intesa come forza espansiva. Non è un mero istinto di sopravvivenza ma una formidabile spinta per autoaffermarsi.
Le sue riflessioni non sono consolatorie o buoniste: “È illusorio far credere al pubblico che perdere sia normale. La sconfitta è dolorosa. Poiché la competizione è durissima”.
In merito al significato che ha il ciclismo, in guisa icastica, adopera il pensiero di Kant, quando sostiene: “l'impossibilità di vivere con gli altri ma anche senza gli altri”.
Il paradosso di correre assieme a dei compagni, ma poi la vittoria è solo di uno. Il capitano raccoglie e sa che chiunque vorrebbe essere al suo posto.
Definisce il gruppo, 200 uomini che pedalano ore e ore, come: “La società del plotone. Una superpotenza che per esistere deve distruggere la particolarità dei suoi membri. Il nemico del gruppo è chi cerca di andare in fuga”.
Scrive che nella storia delle due ruote i pochi fuoriclasse hanno un'enorme stima di se stessi e sono egoisti. Hanno necessità di un lavoro collettivo, ma il bene supremo è rappresentato solo dal proprio “io”. E non mitizzano mai l'avversario, perché è un uomo da battere e altro non può essere considerato.