Al termine del gran Premio d’Austria, mentre tornavamo alla visione del
Tour de France, ieri di passaggio in Svizzera, abbiamo riflettuto su due
aspetti della situazione attuale. Il primo: la Ferrari, in questo momento, in
determinate condizioni di gara, è la macchina più forte, e Leclerc un pilota
ormai maturo per poter ambire a grandi traguardi. Dopo Silverstone, infatti,
sarebbe stato facile avere reazioni forti nei confronti dei vertici sportivi
del team. Che ci saranno sicuramente state, immaginiamo; ma che il pilota ha
saputo non far trapelare in modo clamoroso all’esterno, in un momento dove la
stampa sportiva, soprattutto quella della vicina Penisola, non aspettava altro.
L’altra riflessione riguarda sempre la macchina, questa volta dal punto di vista
dell’affidabilità: nei prossimi giorni si proverà infatti a capire cos’è
accaduto alla monoposto di Sainz, che sembrava ormai pronta a raggiungere
agevolmente la seconda piazza. Certo, un motore che subisce un danno così
grave, arrivando a incendiarsi, pone qualche interrogativo, al di là del
problema della penalizzazione, che va a colpire proprio l’aspetto della durata
del propulsore, considerato strategico dai regolamenti. Altro aspetto che
abbiamo notato è il troppo tempo intercorso tra l’inizio dell’incendio e
l’intervento dei commissari: nei nostri ricordi di gioventù, dove il fuoco era
un elemento molto più presente nella gare automobilistiche, la reattività era
decisamente maggiore. Forse, il progresso tecnico dei bolidi ha fatto passare
in secondo piano questo rischio, che invece rimane, considerando che, nelle
autovetture da competizione, sono presenti carburanti, liquidi infiammabili e
temperature elevatissime del motore e di altre componenti meccaniche, tutti
elementi in grado di chiudere il triangolo della combustione. Ci auguriamo sia
stata solo una casualità: ma, per qualche istante interminabile, vedendo il
fuoco propagarsi e il pilota che non usciva dall’abitacolo, ci siamo
preoccupati non poco.
Per il resto, vedendo i grandi miglioramenti portati dal cosiddetto
“Effetto suolo” sulle monoposto, compresi sorpassi mozzafiato, non possiamo che
ricordare i favolosi anni ‘70, quando il genio di Colin Chapman introdusse in
Formula 1 le famigerate “minigonne”, che cambiarono il volto delle corse. La genesi
di questo espediente, che avrebbe cambiato forse per sempre le auto della
Formula regina, sfocia nella leggenda. Già da qualche anno, si era
compreso il ruolo che poteva avere l’aria che transitava sotto le auto da
corsa: tuttavia, quel flusso in depressione non riusciva a seguire fedelmente
il profilo inferiore della vettura, dal momento che l’uscita laterale verso
l’esterno dell’aria comprometteva la stabilità della medesima in curva. Secondo
la vulgata, tramandata dagli ingegneri nei loro incontri, durante l’ennesima
prova nella galleria del vento operata in Lotus (che aveva sede in una chiesa
sconsacrata, per aumentare il mito), uno dei tecnici si avvicinò al modello in
prova, con gli apparecchi ancora attivi. La bilancia misurò un incremento importante
della deportanza. Dal momento che il modellino non era stato toccato, e neppure
gli apparecchi di misura, Chapman intuì che la responsabilità del fatto fosse
dovuta alla presenza di una cartellina rigida appoggiata da quel tecnico alla
fiancata del modello, che aveva provocato una sorta di sigillo del fondo della
vettura. La novità venne introdotta col modello 78, ma raggiunse il suo apice
con la 79, che esordì in Belgio nel 1978, e resta nella memoria degli
appassionati come una delle auto più belle che abbaino mai girato sui circuiti,
oltre che per i risultati strepitosi. Tempo dopo, al termine del periodo di
tentata ostruzione da parte degli altri team, spiazzati dall’innovazione
tecnologica britannica, la soluzione venne generalizzata, per poi venire
abolita nei primi anni ’80, dopo gli incidenti mortali che videro coinvolti
Depailler, Villeneuve, Paletti e Pironi, il quale sopravvisse, ma con gravi
lesioni. Oggi, dopo tanti anni, si vedono monoposto con il fondo ad ali
rovesciate, a garantire l’effetto suolo. E Peter Wright, che con Chapman
sviluppò questa idea, che oggi ha 76 anni, e non fa più parte del circus,
sicuramente apprezzerà.