Rugby
"Non sono un supereroe"
La drammatica storia di Ryan Jones, una leggenda del rugby
Pubblicato il 19.07.2022 07:20
di Angelo Lungo
I ricordi arrivano all'improvviso. Sono gioia, dolore, melanconia o mestizia. Suscitano un sorriso lieve e possono essere commoventi. Sono l'emozione che diventano sentimento. Contribuiscono a costruire un'identità.
La memoria è la mente. Una precisa esigenza. Un valore etico. È la ragione. Richiama il passato. È una dimensione privata e una pubblica. È un ordine sia storico che sociale.
“Ho vissuto 15 anni come un supereroe. E non lo sono. Adesso il mio mondo sta cadendo a pezzi”. È la drammatica confessione di Ryan Jones, 41 anni, grandissimo giocatore di rugby del Galles, ne è stato l'invincibile capitano tra il 2008 e il 2012.
I medici gli hanno diagnosticato i primi segni di demenza e un'encefalopatia traumatica cronica, una patologia progressiva degenerativa del cervello. Gli esperti ritengono che sia uno dei peggiori casi che abbiano visto. Troppi i colpi ricevuti in testa.
Jones sente che tutto sta precipitando: “Sono spaventato. Ho tre figli e un figlio adottivo e voglio essere il miglior padre del mondo. Invece non so quello che il futuro ha in serbo per me”.
Una carriera strepitosa, interrotta nel 2015. All'inizio ecco la depressione. È dura tornare a una vita normale, dopo che per anni si era al centro dell'attenzione.
Le sue parole sono nette: “Sono il prodotto di un ambiente in cui contano solo le performance e che è tutto incentrato sulle prestazioni umane. Io voglio solo vivere una vita felice, sana e normale, invece questa possibilità mi è stata portata via e non c'è niente che posso farci”.
Lo attanaglia la paura del futuro e la convivenza con una malattia subdola e così precoce. Il terrore di perdere il “se” e non aver più la consapevolezza della propria esistenza.
Vuole portare in Tribunale le massime istituzioni del rugby: “È come se camminassero ad occhi chiusi in una situazione catastrofica e verso il baratro, senza fare niente per evitarla”.
Senza memoria non ci sono più filtri. Lo sguardo si perde, i volti non sono più riconosciuti, tutto appare confuso e disordinato. È la realtà sfugge verso un altrove ignoto e sconosciuto.
Lo sport ad livello inganna e illude. Sottovaluta le debolezze dell'umano, pretende prestazioni fisiche che non sono sopportabili.
Tutto deve sempre continuare ed essere sempre giustificato.