Qualcuno che rotola sul fondo c’è sempre, e arranca e si
aggrappa, a sé stesso o all’idea annebbiata che gli rimane. Al Tour, nel
ciclismo, che è impietoso come la vita, resiste iconico il carro-scopa, che
inalbera una vera scopa di saggina. Attraversa le montagne, accarezza le
campagne, questo mezzo che sembra un furgoncino da carpentieri di rientro dalla
giornata, sempre in fondo alla carovana, ripulendo la strada che alle sue
spalle torna vuota e le cicale riprendono a frinire. Invece è la pietas,
ultima e spesso vana, per i respinti, i vomitanti, gli svuotati, i deboli, gli
abbandonati. Il carro-scopa incita a resistere, lotta insieme a loro e a noi
contro il tempo, quello massimo.
Ieri era Marc Soler, non proprio un cavedano, anzi, trattore
da montagna catalano che sulle salite si impenna a trascinare i capitani o va
all’avventura solitaria. Ma ieri di solitario e finale c’era solo il suo
malessere che l’ha ricacciato in fondo alla corsa quando ancora mancavano
cinquanta chilometri di terribile salita e ardita discesa, nei Pirenei appena
abbozzati e già fatali. Un pellegrinaggio dei dolori con la sola compagnia del
carro-scopa. Mentre il québécois Houle tagliava il traguardo con una faccia
alla Bob de Niro per la sua prima vittoria in carriera, Soler era indietro di
quasi un'ora e quando è giunto all’arrivo la gente lo applaudiva mentre
smontavano gli striscioni. Fuori tempo massimo, fuori dal Tour, fuori di sé.
Ha pianto anche la scopa di saggina mentre la calavano dal
furgoncino come un Cristo dalla croce che risorgerà però oggi per spingere qualche
altro disperato alla deriva nel tempo e nello spazio.