Gli
atleti del terzo millennio sono considerati dei simboli, suscitano un
forte processo di identificazione. Nell'immaginario collettivo
rappresentano degli esempi da seguire, sono considerati degli eroi
invincibili. Ai tempi dei social le loro imprese vengono amplificate
e raccontate con dovizia di particolari. Sono strapagati. E loro
mettono al centro dell'attenzione il corpo: lo esibiscono, lo curano
e lo portano al massimo. Ma non solo, sono sottoposti a sforzi
emotivi, una tensione continua, una pressione che li porta a limiti,
talvolta, insopportabili. Le stagioni diventano sempre più lunghe e
logoranti.
I
medici sportivi sostengono che sono fatti di una pasta diversa e sono
in grado di sopportare meglio il dolore. E dopo? Succede che cresce
il numero di sportivi che sono confrontati con gravi problemi di
salute, quando la carriera è terminata.
L'ultimo
a raccontare la sua storia è stato Dirk Nowitzki, 44 anni, una ex
leggenda del basket NBA, per 21 stagioni ha vestito i colori dei
Dallas Mavericks.
Le
sue parole non possono che far riflettere: “Se mi fossi ritirato
due anni prima, sono sicuro che ora sarei in grado di muovermi
meglio”. Ha, quasi, perso la mobilità. Non può nemmeno giocare a
calcio con i ragazzi. Lealtà, interesse? Ora il prezzo che paga è
alto, un autentico calvario nella vita quotidiana. La normalità che
non può più essere tale.
Problemi
fisici che condizionano la vita poiché: “Non è facile essere in
chiaro quando bisogna fermarsi”. Il contesto non consente scelte
realistiche. E si chiede troppo dal proprio corpo.
L'elenco
di sportivi, di alto livello, che lamentano gravi problemi fisici
comincia a essere lungo.
Andy
Murray ha cominciato a soffrire di artrosi all'anca e ora ha una
protesi.
Usain
Bolt non era una macchina perfetta: colonna vertebrale poco
rinforzata e gamba destra più corta di 1,5 centimetri rispetto alla
sinistra. Era fragile e ha subito numerosi infortuni.
Andre
Agassi ha lasciato poiché troppo forti le pressioni familiari e i
dolori fisici. Aveva una vertebra disallineata. All'improvviso un
singolo movimento diventava una tortura.
Ian
Thorpe, cinque volte campione olimpico, ha rischiato di perdere la
mobilità del braccio sinistro. Ha, poi, sofferto anche di una forte
depressione.
Marco
Van Basten, nel suo libro, ha confidato che i medici non lo hanno mai
aiutato. La sua caviglia peggiorava sempre di più. E che a un certo
punto non riusciva nemmeno a camminare. Si ritirò quando aveva solo
28 anni.
Scrive
Lucio Anneo Seneca: “Non è libero chi è schiavo del proprio
corpo”.