L’ex rivoluzionario del football
Arrigo Sacchi, oggi opinionista ripetitivo e autoreferenziale, un
giorno disse: “Il
calcio è la cosa più importante delle meno importanti”.
Una frase che fece scuola. Potrei dire la stessa cosa dell’HC
Lugano, perché per il sottoscritto la società giallobianconera,
aggiungo il giallo per distinguerla, “è
decisamente la cosa più importante delle meno importanti”.
L’unica per cui mi sono commosso nel bene e nel male (non me ne
vergogno affatto!), l’unica che ancora oggi seguo con grande
trepidazione: in pista, in TV e soprattutto alla radio, mezzo
comunicativo impareggiabile. L’unica, infine e mi scuserete, per
cui riesco ancora a discutere e pure ad arrabbiarmi. Mi sono
entusiasmato anche per Clay Regazzoni, indimenticabile, generoso,
umano Clay: quante volte ho maledetto la Ferrari per non averlo
aiutato sino in fondo a vincere il Mondiale del 1974!
Ma torniamo in argomento: i presunti detentori delle verità assolute – o coloro che pretendono di saperla lunga - dicono che un giornalista dovrebbe essere imparziale nei suoi commenti e nei suoi giudizi. Credo di esserlo stato, almeno per un po' di anni. Anche se facevo una fatica bestiale. Ma poi, quando ho cominciato ad apparire in TV, in verità poco gloriosamente, ho dato un calcio alla deontologia professionale e ho messo la casacca. La più bella! Per farmi riconoscere, per far capire a quei quattro gatti che mi seguivano, da che parte stavo. Materia di scazzo e sdegno, in un paese di guelfi e ghibellini come il Ticino. Quella passione, e vado oltre, è nata grazie ad una persona che purtroppo oggi non c’è più: Alberto Curti, mio zio. Un maestro elettricista di grande cultura (amava i classici) e un autentico malato di sport che, senza troppi scrupoli, rinnegò la fede calcistica bianconera per l’hockey. Erano appena iniziati gli Anni Settanta. Mi ricorderò sempre le sue parole: “Il disco su ghiaccio è più emozionante e veloce. Non c’è mai tregua, il calcio mi annoia”. Fu lui che un trentennio fa salì in cima su un vulcano cileno (il Vilarica) e piantò la bandiera dell’HC Lugano. Senso di appartenenza, fede incrollabile. E fu proprio lui che mi scarrozzò in giro per la Confederazione al seguito della “squadra più bella del mondo”: le trasferte a Langnau, a Berna, nella vetusta patinoire des Augustins di Friborgo attaccata al fiume Sarine (un freddo cane!), a Sierre, e pure a Coira; a bordo di un Alfa Romeo color verde sulla quale spesso e volentieri mi “attaccavo” dalla paura. Mi portò anche ad Ambrì, un martedì sera del 1971: era il primo derby di Lega Nazionale A, c’erano 8 mila spettatori urlanti. Tutti leventinesi, o quasi. Non c’era più posto e mi toccò assistere alla partita nella curva Sud insieme ai tifosi biancoblù. Oggi sarebbe impensabile. Ve l’immaginate un ragazzino con la sciarpa bianconera nel bel mezzo della GBB? Roba da brividi. Quella volta il Lugano perse ma il sottoscritto venne risparmiato: vista la giovane età riservarono insulti e sfottò ai pochi adulti saliti dalla città per vedere all’opera Molina e soci.
Ma torniamo in argomento: i presunti detentori delle verità assolute – o coloro che pretendono di saperla lunga - dicono che un giornalista dovrebbe essere imparziale nei suoi commenti e nei suoi giudizi. Credo di esserlo stato, almeno per un po' di anni. Anche se facevo una fatica bestiale. Ma poi, quando ho cominciato ad apparire in TV, in verità poco gloriosamente, ho dato un calcio alla deontologia professionale e ho messo la casacca. La più bella! Per farmi riconoscere, per far capire a quei quattro gatti che mi seguivano, da che parte stavo. Materia di scazzo e sdegno, in un paese di guelfi e ghibellini come il Ticino. Quella passione, e vado oltre, è nata grazie ad una persona che purtroppo oggi non c’è più: Alberto Curti, mio zio. Un maestro elettricista di grande cultura (amava i classici) e un autentico malato di sport che, senza troppi scrupoli, rinnegò la fede calcistica bianconera per l’hockey. Erano appena iniziati gli Anni Settanta. Mi ricorderò sempre le sue parole: “Il disco su ghiaccio è più emozionante e veloce. Non c’è mai tregua, il calcio mi annoia”. Fu lui che un trentennio fa salì in cima su un vulcano cileno (il Vilarica) e piantò la bandiera dell’HC Lugano. Senso di appartenenza, fede incrollabile. E fu proprio lui che mi scarrozzò in giro per la Confederazione al seguito della “squadra più bella del mondo”: le trasferte a Langnau, a Berna, nella vetusta patinoire des Augustins di Friborgo attaccata al fiume Sarine (un freddo cane!), a Sierre, e pure a Coira; a bordo di un Alfa Romeo color verde sulla quale spesso e volentieri mi “attaccavo” dalla paura. Mi portò anche ad Ambrì, un martedì sera del 1971: era il primo derby di Lega Nazionale A, c’erano 8 mila spettatori urlanti. Tutti leventinesi, o quasi. Non c’era più posto e mi toccò assistere alla partita nella curva Sud insieme ai tifosi biancoblù. Oggi sarebbe impensabile. Ve l’immaginate un ragazzino con la sciarpa bianconera nel bel mezzo della GBB? Roba da brividi. Quella volta il Lugano perse ma il sottoscritto venne risparmiato: vista la giovane età riservarono insulti e sfottò ai pochi adulti saliti dalla città per vedere all’opera Molina e soci.
Ricordo
con affetto e nostalgia quei tempi. IL Lugano non era ancora lo
squadrone che avrebbe vinto tutto, il Grande Lugano era soltanto nei
sogni di un ragazzo che non si perdeva (o quasi) una partita: mi
ricordo un’amichevole contro lo Slovan Bratislava, credo nel 1972.
Eravamo in venti alla Resega, non di più: nevicava e faceva freddo.
Nella squadra ospite giocava un certo Dzurilla, fortissimo portiere della
nazionale cecoslovacca. Avrebbe dovuto esserci anche Nedomansky, una
sorta di leggenda. Ma era infortunato. L’eroe di serata fu
Corpataux, sostituto del buon Alfio, che era stato convocato in
Nazionale. Dzurilla gli regalò il bastone.
Ricordo
con affetto e nostalgia, infine, tutti i grandi campioni passati
dalla Resega. Ne potrei citare un centinaio. Ma lo spazio (anche sui
siti) è tiranno. Chiudo allora citando tre nomi, tre personaggi che
a modo loro, in tempi e epoche diverse, hanno dato tanto al Lugano e
mi sono rimasti nel cuore: Roger Corpataux, Jim Koleff e Tiziano
Muzio.