Questa sera si giocherà il primo derby stagionale, una
partita a sé, capace di regalare emozioni fuori e dentro il ghiaccio, una
partita in cui tutto può accadere.
Sì perché anche se è vero che il Lugano fino ad ora non è
stato ancora in grado di manifestare il proprio potenziale, è altrettanto vero
che è nel suo organico ci sono atleti capaci di incantare quando liberi da ogni
blocco mentale.
Ed è proprio questo il tema su cui vorrei porre l’accento:
il blocco mentale e, soprattutto, come sia possibile che questo sia capace di
coinvolgere tutta (o quasi) la compagine bianconera.
Una precisazione: parlo di “blocco mentale” in quanto negli
ultimi giorni ho sentito più volte parlare in differenti occasioni di “mancanza
del mentale” da parte di opinionisti e giornalisti, come se ci fosse una specie
di veste che si possa indossare a seconda delle occasioni.
In realtà la penso un po’ diversamente, motivo per cui
vorrei condividere insieme a voi il mio punto di vista e per farlo vorrei soffermarmi
analizzando la differenza fra dovere e volere, ovvero fra scegliere di sposare
una filosofia di gioco e di spirito di squadra e dover accettare una filosofia
di gioco e una dinamica di spogliatoio.
Mi spiego meglio: da una parte abbiamo Luca Cereda che ha
ben chiaro cosa vuole dal proprio organico ed ha una visione condivisa con la
dirigenza (in primis con il proprio DS Paolo Duca), in cui il gruppo è la vera
forza della squadra.
Per carità, non è che il talento così come il giocatore
capace di “magie” dia fastidio, anzi, ma non è prevaricante né scontato.
Il posto in squadra, così come il proprio ruolo bisogna
guadagnarselo, indipendentemente da quello che si è fatto fino al minuto prima;
“dimostra che sei capace di meritarti la maglia e fai al meglio quello che sai
fare e nessuno ti metterà mai in discussione”.
La “star”, è semplicemente colui che possedendo più
esperienza può da una parte essere un esempio per i più giovani e dall’altra
sicuramente apportare un valore aggiunto alla performance della squadra ma,
come detto, senza voler essere il “di più” proprio perché sceglie di sposare la
filosofia di gioco proposta dal proprio Coach.
Ed ecco che anche se il “migliore”, in termini di qualità di
gioco espresso fino ad ora, viene a mancare sul ghiaccio a causa di un
infortunio, la squadra ha la forza di reagire e sopperire al meglio alla
mancanza del “semplice valore aggiunto”.
Riassumendo: voglio far parte di un gruppo al quale desidero
appartenere e lo dimostro mettendo la mia esperienza ed il mio valore al
servizio del collettivo, perché se vinciamo insieme ne trarrò comunque
beneficio anche a titolo personale.
Sul fronte opposto invece troviamo Chris McSorley,
allenatore a detta di molti dotato di carisma e forti doti di leadership,
capace di guidare le Aquile per quasi 20 stagioni ma senza mai vincere un
titolo svizzero anche se, a dover di cronaca, capace di riportare in National
League il Ginevra nonché vincere due Spengler.
Allenatore che avrebbe dovuto portare energia, passione,
attitudine al lavoro e grande cura dei dettagli, allo scopo di per costruire
una mentalità vincente, solida e duratura nel tempo.
Eppure questa energia e questa passione non si sono
percepite fino ad ora a discapito di grande, forse troppa, cura dei dettagli,
che hanno fatto sentire (e lo fanno tutt’ora) una sorta di costrizione nei
confronti del gioco istintivo.
Ed ecco che diventa visibile a tutti che il Lugano “deve”
giocare in un modo che non gli appartiene, perdendo quelle qualità offensive
che negli ultimi anni lo avevano fatto tornare fra le grandi.
Il gioco fino ad ora è stato lento, appannato, incolore e
perfino chi fino a ieri era solito averci abituato al colpo imprevedibile si è
come spento, quasi avesse timore di prendersi il “rischio di tirare a rete”.
Forse, come dicono gli esperti, è solo una questione di
tempo.
Tempo che però non solo il tifoso sembrerebbe non disposto
ad attendere, ma anche gli stessi giocatori e questo lo si può evincere non
solo dalle ultime dichiarazioni ma anche e soprattutto da quella che nel “mio
campo” viene denominata “comunicazione non verbale”.
Sguardi al cielo, scuotimenti di testa, espressioni
incredule e segnali di sconforto aleggiano infatti spesso in panchina.
Segnali indicatori di una mancanza di comunicazione fra le
parti, un campanello d’allarme che dovrebbe far generare la necessita di
correre ai ripari, “serrando i ranghi”, ovvero cercando il più possibile di
ricompattare il gruppo, magari semplicemente concedendo più libertà nel
gioco e alleggerendo così la pressione.
In fin dei conti, fatta eccezione dei giovani, sono tutti professionisti che sanno giocare a hockey o sbaglio?
Ricordiamoci che un leader non comanda, guida, ovvero mette
a risalto le qualità del singolo a favore del gruppo, così che ciascuno si
senta responsabile allo stesso modo del risultato ottenuto.
Far sì che siano i fatti a parlare e non le parole, perché
sono convinto che quando anche a Lugano si giocherà perché lo si vuole e non
perché si deve, allora tutti torneremo ad emozionarci.
Ed ecco che questo derby potrebbe essere l’occasione per
tornare a vedere un’anima sino ad ora inespressa e, che vinca il migliore!