HOCKEY
La differenza tra volere e dovere
Ambrì e Lugano hanno finora proposto due filosofie diverse: stasera cambierà qualcosa?
Pubblicato il 27.09.2022 07:32
di Fausto Donadelli
Questa sera si giocherà il primo derby stagionale, una partita a sé, capace di regalare emozioni fuori e dentro il ghiaccio, una partita in cui tutto può accadere.
Sì perché anche se è vero che il Lugano fino ad ora non è stato ancora in grado di manifestare il proprio potenziale, è altrettanto vero che è nel suo organico ci sono atleti capaci di incantare quando liberi da ogni blocco mentale.
Ed è proprio questo il tema su cui vorrei porre l’accento: il blocco mentale e, soprattutto, come sia possibile che questo sia capace di coinvolgere tutta (o quasi) la compagine bianconera.
Una precisazione: parlo di “blocco mentale” in quanto negli ultimi giorni ho sentito più volte parlare in differenti occasioni di “mancanza del mentale” da parte di opinionisti e giornalisti, come se ci fosse una specie di veste che si possa indossare a seconda delle occasioni.
In realtà la penso un po’ diversamente, motivo per cui vorrei condividere insieme a voi il mio punto di vista e per farlo vorrei soffermarmi analizzando la differenza fra dovere e volere, ovvero fra scegliere di sposare una filosofia di gioco e di spirito di squadra e dover accettare una filosofia di gioco e una dinamica di spogliatoio.
Mi spiego meglio: da una parte abbiamo Luca Cereda che ha ben chiaro cosa vuole dal proprio organico ed ha una visione condivisa con la dirigenza (in primis con il proprio DS Paolo Duca), in cui il gruppo è la vera forza della squadra.
Per carità, non è che il talento così come il giocatore capace di “magie” dia fastidio, anzi, ma non è prevaricante né scontato.
Il posto in squadra, così come il proprio ruolo bisogna guadagnarselo, indipendentemente da quello che si è fatto fino al minuto prima; “dimostra che sei capace di meritarti la maglia e fai al meglio quello che sai fare e nessuno ti metterà mai in discussione”.
La “star”, è semplicemente colui che possedendo più esperienza può da una parte essere un esempio per i più giovani e dall’altra sicuramente apportare un valore aggiunto alla performance della squadra ma, come detto, senza voler essere il “di più” proprio perché sceglie di sposare la filosofia di gioco proposta dal proprio Coach.
Ed ecco che anche se il “migliore”, in termini di qualità di gioco espresso fino ad ora, viene a mancare sul ghiaccio a causa di un infortunio, la squadra ha la forza di reagire e sopperire al meglio alla mancanza del “semplice valore aggiunto”.
Riassumendo: voglio far parte di un gruppo al quale desidero appartenere e lo dimostro mettendo la mia esperienza ed il mio valore al servizio del collettivo, perché se vinciamo insieme ne trarrò comunque beneficio anche a titolo personale.
Sul fronte opposto invece troviamo Chris McSorley, allenatore a detta di molti dotato di carisma e forti doti di leadership, capace di guidare le Aquile per quasi 20 stagioni ma senza mai vincere un titolo svizzero anche se, a dover di cronaca, capace di riportare in National League il Ginevra nonché vincere due Spengler.
Allenatore che avrebbe dovuto portare energia, passione, attitudine al lavoro e grande cura dei dettagli, allo scopo di per costruire una mentalità vincente, solida e duratura nel tempo.
Eppure questa energia e questa passione non si sono percepite fino ad ora a discapito di grande, forse troppa, cura dei dettagli, che hanno fatto sentire (e lo fanno tutt’ora) una sorta di costrizione nei confronti del gioco istintivo.
Ed ecco che diventa visibile a tutti che il Lugano “deve” giocare in un modo che non gli appartiene, perdendo quelle qualità offensive che negli ultimi anni lo avevano fatto tornare fra le grandi.
Il gioco fino ad ora è stato lento, appannato, incolore e perfino chi fino a ieri era solito averci abituato al colpo imprevedibile si è come spento, quasi avesse timore di prendersi il “rischio di tirare a rete”.
Forse, come dicono gli esperti, è solo una questione di tempo.
Tempo che però non solo il tifoso sembrerebbe non disposto ad attendere, ma anche gli stessi giocatori e questo lo si può evincere non solo dalle ultime dichiarazioni ma anche e soprattutto da quella che nel “mio campo” viene denominata “comunicazione non verbale”.
Sguardi al cielo, scuotimenti di testa, espressioni incredule e segnali di sconforto aleggiano infatti spesso in panchina.
Segnali indicatori di una mancanza di comunicazione fra le parti, un campanello d’allarme che dovrebbe far generare la necessita di correre ai ripari, “serrando i ranghi”, ovvero cercando il più possibile di ricompattare il gruppo, magari semplicemente concedendo più libertà nel gioco e alleggerendo così la pressione.
In fin dei conti, fatta eccezione dei giovani, sono tutti professionisti che sanno giocare a hockey o sbaglio?
Ricordiamoci che un leader non comanda, guida, ovvero mette a risalto le qualità del singolo a favore del gruppo, così che ciascuno si senta responsabile allo stesso modo del risultato ottenuto.
Far sì che siano i fatti a parlare e non le parole, perché sono convinto che quando anche a Lugano si giocherà perché lo si vuole e non perché si deve, allora tutti torneremo ad emozionarci.
Ed ecco che questo derby potrebbe essere l’occasione per tornare a vedere un’anima sino ad ora inespressa e, che vinca il migliore!