CALCIO: L'INTERVISTA
"La pandemia? Un periodo arricchente"
Matteo Vanetta, vice di Seoane allo Young Boys, spiega in cosa sta cambiando il modo di lavorare
Pubblicato il 15.02.2021 13:01
di Luca Sciarini
Il mestiere dell’allenatore è cambiato. Non è più soltanto una questione di preparazione fisica e schemi tattici ma è diventato qualcosa di più variegato e affascinante.
E la pandemia, soprattutto per chi ha lavorato nel mondo dello sport ai più alti livelli, non è stato un periodo inutile. Anzi.
Ce lo conferma Matteo Vanetta, assistente allenatore allo Young Boys campione svizzero.
“Direi addirittura che questo periodo è stato particolarmente arricchente. Il calcio a livello di formazione è uno sport molto conservatore e questa situazione eccezionale ha obbligato gli allenatori e in generale gli staff tecnici a trovare nuovi approcci e nuove idee”.
Nello specifico in cosa sta cambiando il vostro modo di lavorare?
“Riassumendo si potrebbe dire che ormai non si considera più soltanto l’aspetto fisico di un giocatore ma si valuta anche la fatica cognitiva. In questo senso prima ci si limitava soltanto a dividere i giocatori in due categorie: chi era forte e chi era debole a livello mentale. Era qualcosa di molto vago”.
Adesso invece?
“Ora si arriva a stimare la fatica cognitiva di un giocatore e dunque la disponibilità a fornire una nuova performance o a dover ridurre il suo carico cognitivo. Avendo tre partite a settimana non puoi pretendere che il giocatore sia capace di riflettere e decidere velocemente anche in allenamento. Umanamente è impossibile riuscirci”.
Dovete diventare più psicologi?
“Non direi, lo psicologo lasciamolo fare allo psicologo. Si è semplicemente più sensibili nei confronti dell’atleta, che non è una macchina e può essere stanco a livello mentale”.
Come si misura questa fatica cognitiva?
“Ci sarebbero degli strumenti nell’ambito delle neuroscienze che potrebbero aiutare a misurarla, ma sono troppo costose e nessuna squadra svizzera può permetterselo. Si può comunque arrivare a stimarla in maniera piuttosto precisa, conoscendo molto bene il giocatore e avendo una relazione con lui basata sulla fiducia. E con dei piccoli test che avevamo fatto a inizio della scorsa stagione e all’inizio di questa, disponendo così di dati che si possono paragonare. Sono esercizi di reattività, per esempio con palline di ping pong colorate o esercizi che si fanno guardando degli schermi”.
Questione di reattività?
“Assolutamente sì. Se normalmente un giocatore ha un tempo di reattività di 0,3 centesimi di secondo, magari quando è stanco ha soltanto 0,7. Sono tutte cose che si possono misurare”.
Facendo così si apre un mondo nuovo, vero?
“Diciamo che al giorno d’oggi è impensabile gestire i giocatori come si faceva vent’anni fa. Adesso si è obbligati ad essere più vicini all’atleta e ad accompagnarlo. È un ruolo che non deve per forza appartenere all’allenatore principale ma può essere appannaggio di un componente dello staff”.
Non stiamo parlando di un mental coach, vero?
“In questo caso no, anche perché la definizione del mental coach è molto ampia: vuol dire tutto e niente. Io credo invece che le società quando costruiscono uno staff debbano tener conto delle competenze specifiche di ognuno per formare un pacchetto completo che possa occuparsi nel miglior modo possibile del giocatore. In certe occasioni è chiaro che ci si può rivolgere a figure esterne che possono dare senza dubbio il loro contributo”.
Allo Young Boys immagino sarete molto ben strutturati.
“Ognuno di noi ha delle specifiche competenze. Il preparatore fisico si occupa dell’aspetto fisico, io dell’aspetto difensivo della squadra e dello sviluppo cognitivo dei giocatori oltre che la relazione con il settore giovanile, l’altro assistente studia gli avversari e le palle ferme e poi c’è l’allenatore (Seoane) che ha un occhio su tutto e definisce la strategia”.
In pratica sei quello che conosce meglio di tutti i giocatori. Si può dire così?
“Non so se sono veramente quello che li conosce meglio, sono sicuramente quello che è più sensibile alle specificità cognitive di ogni giocatore. Credo che in futuro si andrà verso una maggior individualizzazione del lavoro con i vari giocatori, senza per questo tralasciare alcuni sistemi che sono stati usati finora e che saranno sempre utili a livello di preparazione”.
A proposito di giocatori: li hai visti cambiati durante questo anno di pandemia?
“Devo dire innanzitutto che noi siamo stati fortunati e molto diligenti perché abbiamo avuto tre soli casi se non ricordo male. Si sono ammalati quando sono partiti con le rispettive nazionali e non al nostro interno e quindi non abbiamo mai avuto una quarantena di gruppo, se facciamo eccezione del primo lockdown. E durante il primo lockdown i ragazzi sono rimasti a casa nove settimane e in questo periodo hanno potuto lavorare su tutto quello che è la prevenzione, dove sentivano maggiormente il bisogno. Noi non abbiamo imposto nulla”.
A proposito di virus, a Lugano durante la prima ondata c’erano giocatori combattuti tra la paura di riprendere e la voglia di tornare in campo. Voi come l’avete vissuta?
“In Ticino la prima ondata è stata vissuta con molto più intensità rispetto a ciò che è capitato a noi. Sul campo il rischio di contagio è minimo, lo abbiamo visto durante questo periodo. A differenza dell’hockey, dove i giocatori non potendo tenere le distanze si sono contagiati in panchina, nel calcio tutto ciò non è accaduto. Quando si è fuori dai luoghi chiusi, il rischio è veramente basso”.
Calcisticamente il livello è cambiato?
“Il fatto di giocare senza pubblico toglie l’80% delle emozioni, questo è indubbio, ma a livello prettamente fisico abbiamo notato che noi più giochiamo più corriamo. Anche la corsa ad alta intensità aumenta con il passare delle partite: è stato così lo scorso anno ed è il trend delle prime partite che abbiamo giocato in questo 2021. Il calcio è aumentato di intensità, complice anche i cinque cambi, però chiaramente le sensazioni esterne fanno pensare a un calcio di più basso livello perché non c’è la risonanza delle emozioni”.
Potrebbe cambiare il modo di allenarsi in futuro?
“Questo è un altro degli insegnamenti che ci hanno regalato questo strano periodo. Si è sempre cercato con gli allenamenti di arrivare pronti alla gara, adesso invece giochi la partita al massimo e hai il tempo appena di recuperare per giocare un’altra partita al massimo. Il tempo per allenarsi non c’è più e il più grosso insegnamento che dobbiamo trarre è che non c’è miglior allenamento della partita”.
E c’è ancora tempo per discutere e lavorare sulla tattica?
“Invece di lavorare sul campo si utilizzano altri strumenti come l’analisi video. Si viviseziona la partita e su quella ci si basa per apportare i vari miglioramenti”.
E a proposito di motivazioni, come si fa a mantenerle alte in una squadra come lo Young Boys che a questo punto della stagione sa già di aver praticamente il titolo in tasca?
“La risposta non sta nel risultato ma nelle motivazioni che spingono la squadra e i singoli a migliorare. Ci sono giocatori che sono qui per cercare di spiccare il volo in campionati più importanti e giovani che arrivano dall’Under 21 che lotteranno per essere titolari tra un paio di stagioni. Ognuno ha il suo obiettivo”.
E il nostro calcio, rispetto a qualche anno fa, com’è? Meglio o peggio?
“Anni fa le squadre viste avevano dei budget che permettevano loro di andare a prendere dei giocatori che venivano da grandi campionati. Io ho iniziato la mia carriera giocando con Mauro Galvao che arrivava da un campionato del mondo giocato da titolare con il Brasile. Senza dimenticare i vari Gimenez, Rossi, Koumantarakis, Zamorano, Elber e tanti altri. Ora bisogna andare a cercare i giocatori di seconda o terza categoria all’estero che passeranno attraverso il nostro campionato per fare il salto nelle leghe più blasonate. Anche questa ricerca è molto interessante e stimolante”.