Il mestiere
dell’allenatore è cambiato. Non è più soltanto una questione di
preparazione fisica e schemi tattici ma è diventato qualcosa di più
variegato e affascinante.
E la pandemia,
soprattutto per chi ha lavorato nel mondo dello sport ai più alti
livelli, non è stato un periodo inutile. Anzi.
Ce lo conferma
Matteo Vanetta, assistente allenatore allo Young Boys campione
svizzero.
“Direi addirittura
che questo periodo è stato particolarmente arricchente. Il calcio a
livello di formazione è uno sport molto conservatore e questa
situazione eccezionale ha obbligato gli allenatori e in generale gli
staff tecnici a trovare nuovi approcci e nuove idee”.
Nello specifico
in cosa sta cambiando il vostro modo di lavorare?
“Riassumendo si
potrebbe dire che ormai non si considera più soltanto l’aspetto
fisico di un giocatore ma si valuta anche la fatica cognitiva. In
questo senso prima ci si limitava soltanto a dividere i giocatori in
due categorie: chi era forte e chi era debole a livello mentale. Era
qualcosa di molto vago”.
Adesso invece?
“Ora si arriva a
stimare la fatica cognitiva di un giocatore e dunque la disponibilità
a fornire una nuova performance o a dover ridurre il suo carico
cognitivo. Avendo tre partite a settimana non puoi pretendere che il
giocatore sia capace di riflettere e decidere velocemente anche in
allenamento. Umanamente è impossibile riuscirci”.
Dovete diventare
più psicologi?
“Non direi, lo
psicologo lasciamolo fare allo psicologo. Si è semplicemente più
sensibili nei confronti dell’atleta, che non è una macchina e può
essere stanco a livello mentale”.
Come si misura
questa fatica cognitiva?
“Ci sarebbero
degli strumenti nell’ambito delle neuroscienze che potrebbero
aiutare a misurarla, ma sono troppo costose e nessuna squadra
svizzera può permetterselo. Si può comunque arrivare a stimarla in
maniera piuttosto precisa, conoscendo molto bene il giocatore e
avendo una relazione con lui basata sulla fiducia. E con dei piccoli
test che avevamo fatto a inizio della scorsa stagione e all’inizio
di questa, disponendo così di dati che si possono paragonare. Sono
esercizi di reattività, per esempio con palline di ping pong
colorate o esercizi che si fanno guardando degli schermi”.
Questione di
reattività?
“Assolutamente sì.
Se normalmente un giocatore ha un tempo di reattività di 0,3
centesimi di secondo, magari quando è stanco ha soltanto 0,7. Sono
tutte cose che si possono misurare”.
Facendo così si
apre un mondo nuovo, vero?
“Diciamo che al
giorno d’oggi è impensabile gestire i giocatori come si faceva
vent’anni fa. Adesso si è obbligati ad essere più vicini
all’atleta e ad accompagnarlo. È un ruolo che non deve per forza
appartenere all’allenatore principale ma può essere appannaggio di
un componente dello staff”.
Non stiamo
parlando di un mental coach, vero?
“In questo caso
no, anche perché la definizione del mental coach è molto ampia:
vuol dire tutto e niente. Io credo invece che le società quando
costruiscono uno staff debbano tener conto delle competenze
specifiche di ognuno per formare un pacchetto completo che possa
occuparsi nel miglior modo possibile del giocatore. In certe
occasioni è chiaro che ci si può rivolgere a figure esterne che
possono dare senza dubbio il loro contributo”.
Allo Young Boys
immagino sarete molto ben strutturati.
“Ognuno di noi ha
delle specifiche competenze. Il preparatore fisico si occupa
dell’aspetto fisico, io dell’aspetto difensivo della squadra e
dello sviluppo cognitivo dei giocatori oltre che la relazione con il
settore giovanile, l’altro assistente studia gli avversari e le
palle ferme e poi c’è l’allenatore (Seoane) che ha un occhio su
tutto e definisce la strategia”.
In pratica sei
quello che conosce meglio di tutti i giocatori. Si può dire così?
“Non so se sono
veramente quello che li conosce meglio, sono sicuramente quello che è
più sensibile alle specificità cognitive di ogni giocatore. Credo
che in futuro si andrà verso una maggior individualizzazione del
lavoro con i vari giocatori, senza per questo tralasciare alcuni
sistemi che sono stati usati finora e che saranno sempre utili a
livello di preparazione”.
A proposito di
giocatori: li hai visti cambiati durante questo anno di pandemia?
“Devo dire
innanzitutto che noi siamo stati fortunati e molto diligenti perché
abbiamo avuto tre soli casi se non ricordo male. Si sono ammalati
quando sono partiti con le rispettive nazionali e non al nostro
interno e quindi non abbiamo mai avuto una quarantena di gruppo, se
facciamo eccezione del primo lockdown. E durante il primo lockdown i
ragazzi sono rimasti a casa nove settimane e in questo periodo hanno
potuto lavorare su tutto quello che è la prevenzione, dove sentivano
maggiormente il bisogno. Noi non abbiamo imposto nulla”.
A proposito di
virus, a Lugano durante la prima ondata c’erano giocatori
combattuti tra la paura di riprendere e la voglia di tornare in
campo. Voi come l’avete vissuta?
“In Ticino la
prima ondata è stata vissuta con molto più intensità rispetto a
ciò che è capitato a noi. Sul campo il rischio di contagio è
minimo, lo abbiamo visto durante questo periodo. A differenza
dell’hockey, dove i giocatori non potendo tenere le distanze si
sono contagiati in panchina, nel calcio tutto ciò non è accaduto.
Quando si è fuori dai luoghi chiusi, il rischio è veramente basso”.
Calcisticamente
il livello è cambiato?
“Il fatto di
giocare senza pubblico toglie l’80% delle emozioni, questo è
indubbio, ma a livello prettamente fisico abbiamo notato che noi più
giochiamo più corriamo. Anche la corsa ad alta intensità aumenta
con il passare delle partite: è stato così lo scorso anno ed è il
trend delle prime partite che abbiamo giocato in questo 2021. Il
calcio è aumentato di intensità, complice anche i cinque cambi,
però chiaramente le sensazioni esterne fanno pensare a un calcio di
più basso livello perché non c’è la risonanza delle emozioni”.
Potrebbe cambiare
il modo di allenarsi in futuro?
“Questo è un
altro degli insegnamenti che ci hanno regalato questo strano periodo.
Si è sempre cercato con gli allenamenti di arrivare pronti alla
gara, adesso invece giochi la partita al massimo e hai il tempo
appena di recuperare per giocare un’altra partita al massimo. Il
tempo per allenarsi non c’è più e il più grosso insegnamento che
dobbiamo trarre è che non c’è miglior allenamento della partita”.
E c’è ancora
tempo per discutere e lavorare sulla tattica?
“Invece di
lavorare sul campo si utilizzano altri strumenti come l’analisi
video. Si viviseziona la partita e su quella ci si basa per apportare
i vari miglioramenti”.
E a proposito di
motivazioni, come si fa a mantenerle alte in una squadra come lo
Young Boys che a questo punto della stagione sa già di aver
praticamente il titolo in tasca?
“La risposta non
sta nel risultato ma nelle motivazioni che spingono la squadra e i
singoli a migliorare. Ci sono giocatori che sono qui per cercare di
spiccare il volo in campionati più importanti e giovani che arrivano
dall’Under 21 che lotteranno per essere titolari tra un paio di
stagioni. Ognuno ha il suo obiettivo”.
E il nostro
calcio, rispetto a qualche anno fa, com’è? Meglio o peggio?
“Anni fa le
squadre viste avevano dei budget che permettevano loro di andare a
prendere dei giocatori che venivano da grandi campionati. Io ho
iniziato la mia carriera giocando con Mauro Galvao che arrivava da un
campionato del mondo giocato da titolare con il Brasile. Senza
dimenticare i vari Gimenez, Rossi, Koumantarakis, Zamorano, Elber e
tanti altri. Ora bisogna andare a cercare i giocatori di seconda o
terza categoria all’estero che passeranno attraverso il nostro
campionato per fare il salto nelle leghe più blasonate. Anche questa
ricerca è molto interessante e stimolante”.