CALCIO
Beppe Viola, un uomo "troppo" avanti
In questi giorni sono 40 anni dalla morte del grande giornalista italiano
Pubblicato il 18.10.2022 09:58
di Silvano Pulga
Era un'altra epoca, era un'altra Milano quella che raccontava Beppe Viola, del quale ricorrono, in questi giorni, i 40 anni dalla morte, avvenuta prematuramente (lo fulminò un'emorragia cerebrale, al rientro dopo un Inter-Napoli a San Siro, il 17 ottobre del 1982, a soli 42 anni). Noi ce lo ricordiamo cronista sportivo soprattutto, e la memoria non può che andare a quel memorabile servizio andato in onda dopo il derby del 27 marzo 1977, che avevamo visto allo stadio, in compagnia di nostro padre. Ancora non lo sapevamo: ma quella sera, davanti alla televisione, in sala, stava per andare in onda il servizio più geniale della storia della Domenica sportiva della Rai. Abbiamo recuperato, in rete, parte del testo: "Quando un appassionato di musica ritorna a casa deluso da un concerto che tanto prometteva, per rifarsi le orecchie sistema sul giradischi un pezzo classico: un espediente, insomma, che provveda ad un immediato riavvicinamento alla cosa amata. Noi, per rispetto dei 70 mila tifosi milanesi, abbiamo avuto più o meno la stessa idea, riaprendo l’album dei ricordi. Proponiamo un pezzo di cineteca, roba buona. È il 24 febbraio 1963; e per rimanere almeno in parte nell’attualità ricordiamo che era il primo derby di Sandro Mazzola. Lui debuttò così, con un gol dopo 13 secondi. Dall’altra parte Rivera, che aveva esordito tre anni prima, era già personaggio, per quei suoi passaggi che poi – più tardi – qualcuno definì immacolati. Inter e Milan a quei tempi si dividevano coppe e scudetti, San Siro era chiamata la Scala del calcio e i suoi attori, forse, tra i migliori del mondo. Chi si ricorda: David, Buffon e Altafini (…) e Mario Corso detto Mandrake: oggi era in tribuna, trascinato anche lui dalla vecchia passione e anche lui uno dei 70 mila delusi”. Era il suo commento al "Derbycidio" (lo chiamò così) andato in scena, quel pomeriggio, alla Scala del calcio. 
Questo era Beppe Viola, milanese di via Lomellina, che sapevamo anche uomo di grande creatività e cultura, in coppia con quell'Enzo Jannacci che, in casa nostra, era amatissimo. Era il periodo del rock milanese: Celentano, Jannacci, Gaber e tanti altri artisti che popolavano, in vari campi, la cultura di quella che veniva definita, ai tempi, la Capitale morale. Sono tanti, difficile ricordarli tutti: a quei tre citati, ci pace aggiungere il cantante dialettale Nanni Svampa e i suoi Gufi (Lino Patruno, Gianni Magni e Roberto Brivio), il cabarettista Walter Valdi. Ma come dimenticare artisti del calibro di Dario Fo e Franca Rame, e non solo loro ovviamente? La citta in bianco e nero era un crogiolo di proposte artistiche e musicali, a tutti i livelli. Beppe Viola si metteva seduto al tavolo di una pasticceria dove si era inventato l' “ufficio facce”, con lo scopo d'indovinare il tifo calcistico attraverso le espressioni del viso degli sconosciuti che entravano in negozio. Ma era anche autore di racconti, di canzoni (l'indimenticabile Vincenzina e la fabbrica, un ritratto struggente della Milano del tempo). Il tutto senza scordare la celeberrima "Quelli che...", cantata in tante occasioni da Enzo Jannacci, e resa immortale da una trasmissione in onda per diverse stagioni sulla televisione italiana. 
Beppe Viola, probabilmente, e anche nei nostri ricordi, era troppo avanti per i suoi tempi, e in un ambiente dove, per diventare giornalista, all'esame (così la raccontò lui) dovevi rispondere a domande su dove si poteva collocare Amintore Fanfani nella corrente di appartenenza della Democrazia Cristiana. Acquistammo, anni dopo la sua morte, un'antologia dei suoi scritti, che conteneva (tra gli altri) una lettera indirizzata ai vertici RAI dell'epoca, dove si lamentava dell'ostracismo che riceveva. Oggi, chissà, lo chiameremmo mobbing: ai tempi, il cronista concludeva la lettera chiedendo un periodo di congedo per andare nel Regno Unito "(...) a imparare l'inglese (a mie spese)." Nonostante l'amarezza, che pervadeva tutto lo scritto, un tocco di genialità anche in quell'occasione. In quello scritto ufficiale (si definiva anche "Il recordman di mancata carriera") c'è tutto: vena letteraria, intelligenza e un tocco d'ironia velata però di amarezza, come la nebbia meneghina di quegli anni, molto diversa da quella di oggi. 
Così come fu geniale l'ultima domanda della sua carriera posta a Massimo Giacomini, allenatore del Napoli, uscito indenne dal Meazza in quel grigio pomeriggio meneghino del 17 ottobre 1982: il Napoli aveva raddrizzato, nel finale, una partita quantomeno compromessa, ispirando al giornalista quella che resterà la sua ultima battuta televisiva, quando chiese a quello che era stato, poche stagioni prima, l'allenatore del suo Milan, se il migliore in campo fosse stato San Gennaro. Ma resta indimenticabile anche l'intervista fatta in tram a Gianni Rivera, anni prima: attenzione, non su un mezzo riservato, ma su uno in servizio di linea. Probabilmente, oggi non sarebbe possibile: altro calcio, altro ambiente, altra Milano. Una Milano che noi ricordiamo con nostalgia: eravamo giovani, ai tempi, e questo ci fa vedere tutto in un modo diverso. Ciao, Pepinoeu: se oggi scriviamo di sport, è anche perché, da bambini, quelli come te ci hanno fatto sognare di fare quel mestiere.  Che tu, che avevi un talento enorme, che ti consentiva di fare molto altro, così definivi: "Le telecronache servono per mangiare, il resto per vivere." In coerenza, del resto, con tutto quanto hai fatto in una vita, ahimè, troppo breve.