Lara Gut Behrami brilla come l’oro
della sua medaglia e immediatamente tutti la tirano per la tuta e
saltano sul carro, me compreso che per anni sono stato infastidito
dal personaggio che si palesava nelle interviste e nei commenti,
spesso veri e propri trabocchetti mediatici. Chiedo scusa a Lara per
la mia sciocca intolleranza e non chiedo a nessuno di fare
altrettanto. Non ho cambiato idea per due successi, ma è nel vedere
questa giovane donna affrontare la sua vita da sciatrice che ne sono
completamente affascinato, che riesco a vedere un sentimento nuovo e
bello. I suoi drift, o derapage per dirla nella lingua alta di Libano
Zanolari, hanno ribaltato i modernisti del carving e riportato in
auge un modo di sciare dove la forza umana va oltre i materiali.
Quanto mi piace.
La svolta nel mio clamoroso recupero
empatico verso Lara è stato il documentario di Niccolò Castelli,
Looking for sunshine, una specie di no comment applicato alla poesia
pura e cruda della passione, della fatica e del dolore, per chiamare
le cose con il loro nome. Un film senza voci fuori campo, senza
domande, senza commenti: solo immagini e voci sommesse in presa
diretta. Ossia tutto quanto permetta di cogliere l’essenza
dell’immenso lavoro a cui è sottomessa Lara, vuoi per migliorare
ogni dettaglio, vuoi per recuperare da un infortunio scioccante. O
per riempire la sua vita.
Naturalmente, ora tutti la vogliono
svizzera, tutti la vogliono italiana, tutti la elevano a ticinese,
luganese, leventinese. Ma chi se ne frega. Lei, di scorza ruvida, non
dà corda a nessuno di questi nazionalismi anacronistici, che pure
sono esaltati in ogni competizione e in ogni cronaca. A me basta
avere ritrovato una sciatrice alla quale appassionarmi e sarebbe
anche giusto che a lei non importasse neanche questo. Importa a me.