Ci poteva essere la folla colorata a parteggiare felice o
scornata. Ci poteva essere William Brett Cassidy ripescato alla frontiera
messicana per arbitrare con Lord Byron Morena. Catmon e Campì erano pronti
dalla notte prima quando, per la prima volta nell’ultimo mese, tutti hanno
dormito nell’attesa fanciullesca della finale, così ambita e agognata.
Ci potevano essere le musiche all’entrata in campo delle
squadre, le buvette rifornite e svuotate più e più volte. Si attendevano i
discorsi magniloquenti della autorità, equidistanti prima, balzanti in groppa
al vincitore dopo.
C’è stato invece un mattino stralunato con la riunione delle
due squadre in un bosco vicino alla palude, come se ordissero un trattato di
sportività per l’evento tanto atteso: la finale dei NeuroMondiali. Nessuno era
stato invitato al congresso, erano convenuti solo i Creisc dalle loro montagne
e i ragazzini dei Campì dalla loro campagna inurbanizzata. Due squadre
meritevoli rappresentanti di vere e proprie minoranze, ma baciate dal talento.
C’è stato un mezzogiorno di vuoto, con il pubblico in
attesa, il palco delle autorità con le poltrone imbottite innalzato con
tempismo, e la stampa a taccuini spianati.
Ci poteva essere una trionfale rappresentazione sportiva,
con il migliore a vincere e lo sconfitto a piangere. Iconografie dello sport da
tramandare.
E invece non c’è stato niente.
Sul far della sera, l’infantino, il Secretario, la Sciura e
i capitani delle altre squadre già eliminate, hanno visto avanzare dalla palude
dei fuochi. Erano le torce di Catmon e Campì che in processione si avvicinavano
allo stadio e una volta giunti, si sono fermate nel cerchio e fermando con un
cenno la banda che già stava per suonare, hanno affidato le seguenti parole ai
due rappresentanti, Ciapalailé e Gabriel Cerruti, che all’unisono hanno
scandito in un silenzio sepolcrale le seguenti parole:
“Noi non vogliamo vincitori e sconfitti, non vogliamo
adeguarci a un mondo fatto così, che si spezza in due parti opposte che
conducono a forme diverse di infelicità e di incomprensione. Non giocheremo la
finale, ognuno di noi riconoscerà la vittoria all’avversario, che diventa
dunque compagno e paritario, nella gioia e nel dolore. Vincere o perdere è un
concetto che rifiutiamo, Catmon e Campì sono amici e se qualcuno non sarà
d’accordo, pazienza. È stato bello, ma così è magnifico”.
In un silenzio allucinante, le due squadre se ne sono andate,
con la folla che si apriva come i cancelli dell’Eden e il palchetto delle
autorità che si autodistruggeva nella perdita di senso. Ormai è tutto.