All'improvviso
sullo stadio ecco il silenzio. Tutto si ferma, tutto è immobile,
un'interruzione del fluire inarrestabile della vita.
Gli
atleti sono sui blocchi, i giudici sono impassibili e attenti,
scrutano i movimenti dei concorrenti in maniera severa.
La
fissità è squarciata da uno sparo, si alza una nuvola, è il via
dello starter.
La
sua partenza era incerta, un limite che voleva se non superare almeno
domare e forse contenere. Usciva dalla curva in ritardo. Doveva
riprendere gli avversari. Ma poi c'era il finale dove si distendeva e
rimontava. Si intuiva che sbuffava. C'era un traguardo da
raggiungere. Bisognava tagliare una linea, prima la testa e poi tutto
il resto. Un orizzonte che corrisponde a uno sprazzo che dà una
parvenza di senso all'esistenza. L'istante è sublimato. Il tempo è
durato solo alcuni secondi. Il momento si è arrestato.
Lui
era Pietro Mennea, era un
velocista.
Era
alto 179 centimetri e pesava 68 kg. Era di Barletta. Nato nel 1953,
in una famiglia modesta, scoprì sin da piccolino la velocità in un
paese dominato dal calcio.
Tra
i suoi innumerevoli successi: il record del mondo dei 200 conseguito
nel 1979, corse in 19 secondi e 72 centesimi, il primato resistette
per 17 anni; la medaglia d'oro ottenuta ai Giochi olimpici di Mosca
del 1980.
Il
giovane barlettano l'Italia la conquistò. Umile e taciturno divenne
un'icona dal Nord al Sud. Nelle strade se si era veloci si diventava
subito: “Mennea”, ma se si osava vantarsi di essere un novello
Achille, arrivava immancabile il dileggio: “Ma chi ti credi di
essere Mennea?”.
Il
suo allenatore era il prof. Carlo Vittori. Lo ricorda come un maniaco
degli allenamenti, profondeva tutta la sua volontà, aveva uno
spirito di sacrificio che lo spingeva al limite della sopportazione.
Eppure ripeteva sempre a se stesso: “Non mi sento preparato”. Ma
non era la paura che inibisce, era la spinta ad andare oltre.
E
il ragazzo gracile e taciturno divenne un eroe quasi invincibile.
Erano
tempi in cui l'atleta non era un'immagine, non era un corpo da
costruire e da esibire, non era un prodotto.
L'istinto
o la causalità gli segnalavano il talento e poi iniziava un percorso
dove c'era bisogno di fantasia, si doveva essere come degli
artigiani. Era necessario scoprire, sperimentare e innovare, su se
stessi.
Morì
il 21 marzo del 2013.
Disse:
“La fatica non è mai sprecata: soffri ma sogni”.