Atletica
Pietro Mennea
Era la freccia del Sud, leggero e veloce
Pubblicato il 21.03.2023 09:06
di A. L.
All'improvviso sullo stadio ecco il silenzio. Tutto si ferma, tutto è immobile, un'interruzione del fluire inarrestabile della vita.
Gli atleti sono sui blocchi, i giudici sono impassibili e attenti, scrutano i movimenti dei concorrenti in maniera severa.
La fissità è squarciata da uno sparo, si alza una nuvola, è il via dello starter.
La sua partenza era incerta, un limite che voleva se non superare almeno domare e forse contenere. Usciva dalla curva in ritardo. Doveva riprendere gli avversari. Ma poi c'era il finale dove si distendeva e rimontava. Si intuiva che sbuffava. C'era un traguardo da raggiungere. Bisognava tagliare una linea, prima la testa e poi tutto il resto. Un orizzonte che corrisponde a uno sprazzo che dà una parvenza di senso all'esistenza. L'istante è sublimato. Il tempo è durato solo alcuni secondi. Il momento si è arrestato.
Lui era Pietro Mennea, era un velocista.
Era alto 179 centimetri e pesava 68 kg. Era di Barletta. Nato nel 1953, in una famiglia modesta, scoprì sin da piccolino la velocità in un paese dominato dal calcio.
Tra i suoi innumerevoli successi: il record del mondo dei 200 conseguito nel 1979, corse in 19 secondi e 72 centesimi, il primato resistette per 17 anni; la medaglia d'oro ottenuta ai Giochi olimpici di Mosca del 1980.
Il giovane barlettano l'Italia la conquistò. Umile e taciturno divenne un'icona dal Nord al Sud. Nelle strade se si era veloci si diventava subito: “Mennea”, ma se si osava vantarsi di essere un novello Achille, arrivava immancabile il dileggio: “Ma chi ti credi di essere Mennea?”.
Il suo allenatore era il prof. Carlo Vittori. Lo ricorda come un maniaco degli allenamenti, profondeva tutta la sua volontà, aveva uno spirito di sacrificio che lo spingeva al limite della sopportazione. Eppure ripeteva sempre a se stesso: “Non mi sento preparato”. Ma non era la paura che inibisce, era la spinta ad andare oltre.
E il ragazzo gracile e taciturno divenne un eroe quasi invincibile.
Erano tempi in cui l'atleta non era un'immagine, non era un corpo da costruire e da esibire, non era un prodotto.
L'istinto o la causalità gli segnalavano il talento e poi iniziava un percorso dove c'era bisogno di fantasia, si doveva essere come degli artigiani. Era necessario scoprire, sperimentare e innovare, su se stessi.
Morì il 21 marzo del 2013.
Disse: “La fatica non è mai sprecata: soffri ma sogni”.