Scorrevano
veloci gli anni Sessanta, tumultuosi e forieri di speranze. Era
un'epoca di passioni forti. Si respirava aria di rivoluzione. I
giovani contestavano la Legge del Padre e ritenevano la famiglia un
coacervo di ipocrisie. Una sorta di rito stantio e superato. La
musica incitava a essere iconoclasti. All’improvviso sulla scena
canora compare un inedito protagonista: il cantautore. È un artista
che diviene un tutt’uno con le sue canzoni: scrive le parole, la
musica e le interpreta. I testi hanno l’ambizione di essere colti,
ironici. Hanno lirismo e contengono precisi riferimenti dello spirito
del tempo. Sono canzoni che parlano di vita, di nostalgia, di
solitudine, di disagio, di potere e di amore che non precipita nello
sdilinquimento. Temi forti affrontati con l’indole di essere liberi
e provocatori.
“L’ammirazione
sconfinata per De André mi ha convinto a provare a fare questo
mestiere. E poi Bob Dylan”. Francesco
De Gregori
è considerato il “Principe” dei cantautori, capace di
attraversare generazioni, sofisticato e popolare, colto ma non
retorico, all’apparenza ermetico. Un ricercatore di senso. Ha
sempre giocato con il linguaggio e proposto riferimenti letterari,
storici, politici. Capace, poi, con una frase di rappresentare lo
struggente patimento di un innamorato non corrisposto.
De
Gregori è “La
storia siamo noi”,
il cui significato è espresso chiaramente nel titolo. La storia è
fatta dalle persone comuni, dal popolo e nessuno si deve sentire
escluso. Non si ferma mai, è un processo inarrestabile, non si può
restare al chiuso, saremo sempre trascinati e abbiamo tutto da
vincere e tutto da perdere. Sono coinvolti grandi personaggi e quelli
che si sentono umili, non ci si può estraniare.
De
Gregori è “La
leva calcistica del ‘68”.
Il calcio è un pretesto. Un'allegoria per poter parlare
dell’esistenza. Sul prato viene inscenata la vita: vittoria,
sconfitta, sudore, sofferenza e gioia. Ecco la debolezza di sbagliare
un calcio di rigore, l’errore di chi ci mette il cuore e la
passione e che solo all’apparenza compie uno sbaglio. È un
perdente momentaneo, perché un grande giocatore, nella vita, lo si
vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. È un inno alla
speranza, auspica che l’ego non travolga l’etica.
De
Gregori è “Rimmel”,
racconta di una storia d’amore terminata. Rimanda al trucco, al
cosmetico, un qualcosa di artificiale che nasconde. Rimane qualcosa
di chiaro e scuro, conclusione e consumo, per ricordare un groviglio
di colpe o meriti, alibi e ragioni. Parla di profezie non avverate,
di un bel gioco ma solo nella fantasia. Dove i quattro assi hanno un
solo colore e quindi qualcuno ha barato, ha usato trucchetti. Ma
occorre rialzarsi e continuare il percorso della vita.
“La
vita è come un gioco da vivere perdutamente, a volte vinci il primo
premio e poi ti accorgi che non serva a niente”.