IL RACCONTO DI GENETELLI DI UNA PARTITA DEI "MINORI"
A proposito di stadio ...
Al Campo Marzio nel 1951 si giocò uno spareggio per salire in Seconda tra Preonzo e Tresa
Pubblicato il 09.03.2021 09:22
di Giorgio Genetelli
Sventolano camicie bianche, scie di motori, catene di velocipedi, verso Bellinzona. Strade di terra per un giorno di fuoco. Poi il diluvio e fortuna che c’è il treno. Nel transitare a Lamone, luogo di una vittoria, si commuovono incantati dai rivoli di gocce sui finestrini. A Lugano scendono, belli e tesi, dissimili dai cittadini. Li attende il Campo Marzio con quel nome da circo romano ed è un terribile stadio appena fuori l’agglomerato di case coricate in riva al lago. Entrano per la prima volta in uno spogliatoio (al paese si cambiano e poi si lavano in piazza).
Lì nella fortezza, anche gli avversari sono diversi da tutti gli altri incontrati fino a quel giorno e vengono da sud. Prima di entrare sul prato allagato – di piovere non smette – hanno tempo per squadrarne le divise a strisce bianche e azzurre e ascoltarne la parlata quasi lombarda. Loro invece sono rossoverdi fin dal ’31 e adesso siamo nel ’51, una guerra in mezzo e tanti onorevoli calci all’invana gloria.
Quel giorno è di più, e di un bel pezzo: la finale per il titolo. Dopo un cammino di venti partite e dieci mesi, tre dei quali a spalare la neve di un inverno inesorabile.
Nero come il fato, l’arbitro fischia. Via! Scivolando sull’acqua, il numero nove degli altri aggancia il pallone di destro e con la punta del sinistro ruba il tempo al Curioni. Non c’è neanche tempo di cristonare che già il Lucien pareggia. Anche lui con un sinistro, ma da metà acquitrino, dopo che il Gino gli ha urlato: “Léntele da trepisgèe! Tiri!”. La rete non si sbriciola, ma tossisce il pallone inzuppato fuori dai sedici.
A metà tempo, possono fare la doccia per scaldarsi, roba da matti. Il Curioni si scola un tazzin. Il Marcelo è immacolato, lui a terra non si butta mai e sembra che non sudi, solo acqua dal cielo sulla maglia numero sette da ala sinistra spedita là per non disturbare.
Tornano fuori. La calce delle righe sfuma nel fango. Gli avversari non sembrano reggere il diluvio, come se una greve malinconia ne afflosciasse l’umore, e dopo venti minuti, alcuni racconteranno trenta, è il Lucien a mirare la vittoria, stavolta levandosi in volo oltre i suoi centosettanta centimetri scarsi e sopra le teste della difesa smarrita. Colpisce. Fronte e pallone si baciano con uno smack che sente anche il Curioni dall’altra porta. Niente abbracci, c’è ancora da fare.
Quindi il Paso e poi il Nato. Fanno quattro, a uno. Decorazioni.
Prendono la coppa, si precipitano in stazione che il sole fa un timido ciao e a Bellinzona è di nuovo piena estate. Le camicie bianche si asciugano d’aria in sella ai motori e nel vortice delle pedivelle.
Arrivano in piazza con crepitio di ghiaia e lì ci sono tutti quanti, nel senso del paese intero.
Nella Coppa versano quel che capita e bevono. Il Ligio strappa dalle mani del Vitali un rospo vivo e gli stacca la testa con un morso. La Carolina del bar corre di qua e di là e nessuno resta a bicchiere vuoto, mai. Traballano in canti interminabili.
Il lunedì ci sono alcune righe sul Dovere.