Sventolano camicie bianche, scie di
motori, catene di velocipedi, verso Bellinzona. Strade di terra per un giorno
di fuoco. Poi il diluvio e fortuna che c’è il treno. Nel transitare a Lamone,
luogo di una vittoria, si commuovono incantati dai rivoli di gocce sui
finestrini. A Lugano scendono, belli e tesi, dissimili dai cittadini. Li
attende il Campo Marzio con quel nome da circo romano ed è un terribile stadio
appena fuori l’agglomerato di case coricate in riva al lago. Entrano per la
prima volta in uno spogliatoio (al paese si cambiano e poi si lavano in
piazza).
Lì nella fortezza, anche gli avversari sono diversi da tutti gli altri incontrati fino a quel giorno e vengono da sud. Prima di entrare sul prato allagato – di piovere non smette – hanno tempo per squadrarne le divise a strisce bianche e azzurre e ascoltarne la parlata quasi lombarda. Loro invece sono rossoverdi fin dal ’31 e adesso siamo nel ’51, una guerra in mezzo e tanti onorevoli calci all’invana gloria.
Lì nella fortezza, anche gli avversari sono diversi da tutti gli altri incontrati fino a quel giorno e vengono da sud. Prima di entrare sul prato allagato – di piovere non smette – hanno tempo per squadrarne le divise a strisce bianche e azzurre e ascoltarne la parlata quasi lombarda. Loro invece sono rossoverdi fin dal ’31 e adesso siamo nel ’51, una guerra in mezzo e tanti onorevoli calci all’invana gloria.
Quel giorno è di più, e di un bel
pezzo: la finale per il titolo. Dopo un cammino di venti partite e dieci mesi,
tre dei quali a spalare la neve di un inverno inesorabile.
Nero come il fato, l’arbitro
fischia. Via! Scivolando sull’acqua, il numero nove degli altri aggancia il
pallone di destro e con la punta del sinistro ruba il tempo al Curioni. Non c’è
neanche tempo di cristonare che già il Lucien pareggia. Anche lui con un
sinistro, ma da metà acquitrino, dopo che il Gino gli ha urlato: “Léntele da
trepisgèe! Tiri!”. La rete non si sbriciola, ma tossisce il pallone inzuppato
fuori dai sedici.
A metà tempo, possono fare la doccia
per scaldarsi, roba da matti. Il Curioni si scola un tazzin. Il Marcelo è
immacolato, lui a terra non si butta mai e sembra che non sudi, solo acqua dal
cielo sulla maglia numero sette da ala sinistra spedita là per non disturbare.
Tornano fuori. La calce delle righe
sfuma nel fango. Gli avversari non sembrano reggere il diluvio, come se una
greve malinconia ne afflosciasse l’umore, e dopo venti minuti, alcuni
racconteranno trenta, è il Lucien a mirare la vittoria, stavolta levandosi in
volo oltre i suoi centosettanta centimetri scarsi e sopra le teste della difesa
smarrita. Colpisce. Fronte e pallone si baciano con uno smack che sente anche
il Curioni dall’altra porta. Niente abbracci, c’è ancora da fare.
Quindi il Paso e poi il Nato. Fanno
quattro, a uno. Decorazioni.
Prendono la coppa, si precipitano in
stazione che il sole fa un timido ciao e a Bellinzona è di nuovo piena estate.
Le camicie bianche si asciugano d’aria in sella ai motori e nel vortice delle
pedivelle.
Arrivano in piazza con crepitio di
ghiaia e lì ci sono tutti quanti, nel senso del paese intero.
Nella Coppa versano quel che capita
e bevono. Il Ligio strappa dalle mani del Vitali un rospo vivo e gli stacca la
testa con un morso. La Carolina del bar corre di qua e di là e nessuno resta a
bicchiere vuoto, mai. Traballano in canti interminabili.
Il lunedì ci sono alcune righe sul
Dovere.