Il romanzo di Mary Shelley è ancora attuale
Quando il diverso diventa un mostro
La storia di Frankenstein
Pubblicato il 10.03.2021 23:01
di Angelo Lungo
“L’invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos”.
Mary Shelley era figlia della filosofa Mary Wollstonecraft e del filosofo e politico William Godwin. Giovanissima, all’età di 19 anni, sposò Percy Shelley un poeta, uno dei più celebri lirici britannici. Durante il mese di giugno del 1816 si ritrovarono in Svizzera: Mary e Percy Shelley, Lord Byron, John Polidori e Claire (sorellastra di Mary e amante di Byron). Costretti in casa dal maltempo, decisero di organizzare un strana disfida: raccontare una storia di paura e di orrore.
Fu così che l’inglese inventò e diede vita a Frankstein.
L’11 marzo del 1818 venne dato alle stampe: “Frankenstein; or, The Modern Prometheus”.
Prometeo era un personaggio della mitologia greca, l’epiteto significa “colui che riflette prima”. Rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Compì un gesto di ribellione, sfidò autorità e imposizioni.
Secondo Jung gli archetipi sono storie impresse profondamente nella cultura, vengono spontanee in mente, sembrano naturali. Storie eterne, capaci di viaggiare di generazioni in generazioni, sono immortali.
Forse è questo il vero segreto del successo e del perché attrae, coinvolge e sconvolge Frankenstein.
“Mi ingegnai a inventare una storia che sapesse parlare alle paure più misteriose della natura umana. Risvegliando in essa il fremito dell’orrore. Una storia che inducesse il lettore a tremare nel guardarsi intorno… Che gelasse il sangue e gli accelerasse i battiti del cuore”.
Premessa: Frankenstein non era la creatura “mostruosa” ma il cognome del dottore che lo aveva creato.
Il “mostro” aveva un’anima nobile ed educata. Vibrava di passioni umane, voleva emozionarsi, patire o gioire, ridere o piangere come chiunque altro. Ma cinicamente fu subitaneamente isolato: troppo diverso. La solitudine, in cui fu confinato, divenne insopportabile: una condizione esistenziale che deflagrò in inquietudine e tormento. Lo lacerò, spingendolo nei meandri oscuri: dove la speranza è sconfitta dalla disperazione. Non capiva perché il mondo dei sentimenti, quello che fa esplodere la vita, gli dovesse essere precluso.
Il romanzo propone una sardonica critica della scienza, della protervia dell’uomo di sentirsi onnipotente, scevro di un’etica delle responsabilità: quella che dovrebbe fare riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni.
Ma il vero “mostro”,  per Shelley, erano gli uomini che costituivano la società: quella che discriminava, che escludeva, che marginalizzava, che respingeva i diversi.
Un monito profetico: spaesamento e isolamento sembrano le compagne dell’uomo contemporaneo.
Un rischio profetico: senza “etica” l’esito è il nichilismo tecnologico.
“Quanto sono mutevoli i nostri sentimenti e quanto strano è l’attaccamento passionale alla vita che abbiamo anche nel massimo della sofferenza!”.