Calcio
Il caso Inzaghi
Perché l'allenatore dell'Inter non può essere considerato ancora un grande
Pubblicato il 13.06.2023 06:31
di Silvano Pulga
Man mano che l'adrenalina per Manchester City-Inter si attenua, si comincia con calma ad analizzare la partita, e non solo. Va detto che questa finale verrà ricordata a lungo, qualcuno sostiene che una sconfitta netta avrebbe lasciato l'animo del tifoso più tranquillo. Noi abbiamo qualche dubbio: preso atto (ma lo sapevamo) che la calma olimpica di tanti amici con nel cuore i colori nerazzurri era dettata da una prosaica scaramanzia, ci permettiamo di dire che una sconfitta onorevole, al cospetto di una squadra data per favorita alla vigilia, è meglio di una sconfitta secca, magari maturata in modo evidente già nei primi minuti. In realtà, come già scritto da altri, Simone Inzaghi ha dimostrato, ancora una volta, i suoi pregi e i suoi difetti. I pregi, l'aver creato qualche grattacapo tattico al suo blasonato dirimpettaio. Favorito dai ritmi bassi, imposti a sorpresa dai britannici, il tecnico emiliano ha intelligentemente chiuso tutte le linee centrali di passaggio. A inizio gara, soprattutto, quando la palla passava, sulle fasce, dai piedi Bernardo Silva o Grealish, non si vedeva quasi mai lo scambio verso il centro, sula tre quarti, a favore di Rodri o De Bruyne, grazie all'interdizione del centrocampo interista, Nicolò Barella e Marcelo Brozović su tutti. Aggiungiamoci una manovra lenta e farraginosa, ed ecco l'impossibilità di innestare Haaland in velocità. Foden, subentrato al belga, in una sola occasione si è inventato un'occasione interessante (fallendola), ma per il resto i discepoli di Pep hanno fatto più che altro del gran possesso palla, lontani dai 16 metri avversari. Non proprio un bello spot per il calcio, ma tant'è. Dopo i pregi, parliamo dei difetti. Con un organico che costa 132 milioni lordi d'ingaggio annui, l'Inter avrebbe dovuto vincere lo scudetto lo scorso anno sicuramente, e quest'anno magari, visti i guai (fuori dal campo, ma non solo) dei rivali di sempre della Juventus e la stagione del Milan, bello in autunno (quando, nel derby, fece a brandelli i cugini) e insondabile nel resto della stagione, anche per la solita trafila d'infortuni. Invece, Simone Inzaghi ha chiuso secondo lo scorso anno a -2 dal vertice ma, soprattutto, terzo quest'anno a - 18, sopravanzato anche dalla Lazio, che pure aveva un organico molto, molto inferiore a quello dei milanesi. Certo, ha recuperato il - 2 coi cugini, che si è preso la soddisfazione di battere 4 volte nel 2023: tuttavia, il bilancio è lo stesso della passata stagione. Ha giocato 5 finali in 20 mesi: ma ha perso quella che contava davvero. Oggi sono in pochi a metterlo in discussione, rispetto a pochi mesi fa. Ma la sensazione è che ciò non avvenga per una sorta di riconoscenza, per aver regalato al popolo nerazzurro delle grandi emozioni in Europa. Quando qualcuno realizzerà che la Coppa è andata in Inghilterra, nonostante i festeggiamenti e i tanti meme di ringraziamento, siamo certi che la discussione riprenderà. Fermo restando che l'aspetto finanziario va tenuto in considerazione: a quei costi (non proprio bassissimi, tra l'altro), di meglio in circolazione non c'è nulla. Come si spiega questo rendimento? A nostro parere, con una mentalità che non è ancora del tutto vincente. Inzaghi , lo scorso anno, nei momenti di morale alto, ha fatto vedere un gioco di grande spessore, migliore sicuramente di quello messo in scena dal predecessore Antonio Conte: uno che, invece, la mentalità vincente ce l'ha, eccome. Quando però la fiducia cala (e può succedere) il tecnico inizia a lanciare messaggi negativi ai suoi. Le sostituzioni dei giocatori ammoniti anche contro la logica tattica, a denotare un certo timore, e diverse prestazioni (in campionato) piuttosto deludenti. In Europa, le cose sono andate meglio: però, al momento decisivo, nonostante le belle cose di cui sopra, sabato sera è mancato il coraggio di provare a vincere. Il City è una corazzata, certo. Ma, come già scritto, sabato era in soggezione. E, giocando a passo camminato, ha perso tanto del suo smalto, e della sua forza. Imbeccato con lanci lunghi in profondità, Haaland diventa uno dei tanti, per dire. E Acerbi ha avuto buon gioco a controllarlo, fermo restando che il norvegese gli è scappato via quelle volte che hanno provato a lanciarlo in velocità, a dimostrazione che l'intensità e la ricerca della profondità a ritmi elevati sono l'arma in più degli inglesi. L'Inter, in definitiva, ha fatto vedere le cose migliori quando, costretta dal risultato, ha provato a mordere. E, lì, si è accorta che i Citizens, almeno l'altra sera, erano una squadra come tante delle altre affrontate in precedenza. Meno forte del Bayern Monaco, passato due volte in surplace nel girone eliminatorio, forse al livello del Barcellona autunnale, superato dai nerazzurri. E, in quei concitati minuti, la partita ha rischiato di entrare nella leggenda. Com'è andata, lo sappiamo. Ma un altro tecnico, magari, avrebbe inserito un Mkhitaryan seppure non con i 90' nelle gambe al posto di uno spento Hakan Çalhanoğlu, oltre a Romelu Lukaku per Edin Džeko. Aprire il gioco avrebbe favorito il Manchester? Chissà. Ma in una finale, devi provare a vincere, soprattutto quando, durante la gara, ti accorgi che gli avversari sono in una serata difficile. E ciò che è accaduto più tardi, con gli italiani molto più vicini al gol del pari di quanto i britannici a quello del raddoppio, è la controprova che, a volte, nel calcio manca, quando si discute col senno del poi. In definitiva, questa è la tara che, per ora, sta impedendo a Simone Inzaghi di essere ammesso al club di quelli che stanno in prima fascia. A un certo punto, Simone ha fatto inginocchiare Pep, quando Manuel Akanji ha commesso un errore che poteva costare carissimo: ma Lautaro, un altro che difetta del giusto carattere per reggere queste temperature (e non è un caso che nella nazionale argentina sia una riserva), ha concluso addosso al portiere avversario, anziché vedere Marcelo Brozović tutto solo, là dove poteva davvero fare male. Eupalla, evidentemente, che premia l'audacia, ha chiuso agli occhi all'attaccante sudamericano, punendo anche il suo allenatore, seduto in panchina con Henrikh Mkhitaryan. Il quale, vista la grinta messa nei pochi minuti nei quali è stato in campo, ha dimostrato che mezz'ora di autonomia l'avrebbe avuta. Almeno secondo la bizzosa dea del calcio. Che ha voluto premiare Pep Guardiola ma, probabilmente, per quanto fatto sin lì, e non certo per la prova dei suoi sabato sera. Inspired by Milan, made in Manchester: well done, guys.