Zigzagando
tra mascherine e disinfettanti, di recente ho fatto due cose: ordine in alcuni
cassetti e guardato parecchio sport in televisione. Parto dal secondo punto,
per poi tornare al primo. La scoperta più piacevole delle ultime settimane l’ho
certamente fatta guardando le regate della Coppa America di vela (per la verità
in differita, visti gli orari un po’ troppo notturni delle dirette). Per due ragioni.
Innanzitutto per avermi riportato indietro di qualche anno, al 2007 per la
precisione, quando per lavoro fui inviato a Valencia per seguire l’avventura di
Alinghi nella difesa della Coppa delle 100 Ghinee, il trofeo sportivo più
antico della storia dello sport, approdato quasi incredibilmente in Svizzera
grazie alla visione di Ernesto Bertarelli. Secondariamente perché ho visto uno
sport che ha saputo far tesoro dei propri errori per proporre una competizione
moderna, avvincente ed equilibrata. Questa riscoperta dell’America’s Cup mi ha
appunto portato a frugare nei cassetti, alla ricerca dei ricordi di
quell’incredibile periodo sportivo, per la Svizzera, e professionale, per me.
Sportivamente
parlando, finalmente il frustrante periodo d’incertezza seguito all’edizione 2007
- quando gli americani mischiarono artificialmente le carte in tribunale pur di
riuscire a strappare ad Alinghi il trofeo - può essere considerato superato. Va
infatti ricordato che, per molti aspetti, chi detiene il trofeo detta le
regole. Da quando i neozelandesi hanno ripreso il controllo sulla Coppa,
infatti, hanno sviluppato un concetto molto interessante, che, nonostante il
limitato numero di partecipanti di questa edizione numero 36, ha dato
indicazioni incoraggianti sotto tutti i punti di vista. La tecnologia estrema
applicata ai nuovi AC75 - autentiche “barche volanti” che sfruttano la
tecnologia foil per rimanere sollevate dall’acqua e superare i 50 nodi di
velocità (100 all’ora, una cosa incredibile) - avvicina singolarmente le
imbarcazioni alla Formula 1 dell’automobilismo. Ma i neozelandesi sono andati
oltre, interrogandosi sul format della competizione e sfoderando regate da
vivere totalmente in apnea anche a livello televisivo. Ecco il vero successo di
questa edizione numero 36: le regate sono autentici “thriller” capaci di
appassionare anche i meno esperti.
Mentre
scrivo, ad Auckland hanno appena annullato la regata numero 10, quella che
avrebbe potuto confermare Team New Zealand quale detentore dell’America’s Cup,
visto il vantaggio per 6-3 sugli italiani di Luna Rossa (sempre loro, châpeau)
in una serie al meglio delle 7. Il vento sul golfo di Hauraki - ricordate il
2003, quando Alinghi fece l’impresa? Ecco il campo di regata è praticamente lo
stesso - ha ricordato a tutti di essere il padrone assoluto da quelle parti.
Neanche a farlo apposta fuori dalla finestra di casa, il vento da nord scuote
gli alberi. Mi viene in mente una cosa: chissà cosa ne pensa Ernesto Bertarelli?
Basta chiedere a Google per scoprire che negli scorsi giorni il patron di
Alinghi ha rilasciato una lunga intervista a tema velico sulla Tribune de
Genève. Ve ne riporto un passaggio, in risposta alla domanda su un possibile
interesse futuro di Alinghi per il nuovo format dell’America’s Cup. “Non si sa mai… Tutto dipenderà da cosa deciderà il
vincitore dell’edizione numero 36 per la prossima edizione, la 37a quale
Defender. Tra gli aspetti che vogliamo vedere evolvere c’è forzatamente la
questione delle condizioni di partecipazione per le nuove squadre, che devono
essere sostenibili sul piano della competizione sportiva. Oltre beninteso alle
misure che verranno adottate per rendere la partecipazione più abbordabile.
L’America’s Cup rappresenta l’Everest della vela e il Protocollo che ne
definisce le regole, in qualche modo, è il bollettino meteo… Non ci si lancia
in un’ascensione all’Everest se le previsioni del tempo sono pessime fin da
subito”. Come dire che non è tutto oro quello che luccica, ma…
Per adesso buon vento a Luna Rossa e Te Rehutai. A sognare
Alinghi riprenderemo tra qualche giorno.