CALCIO
Il problema delle televisioni
In Italia preoccupa il fatto che, almeno per lo sport, non decolli la pay per view
Pubblicato il 21.07.2023 10:03
di Di Silvano Pulga
Oltreconfine, è piuttosto vivo il dibattito sullo sport (soprattutto il calcio) trasmesso in televisione. Nelle scorse settimane, sono state presentate le offerte per l’acquisto dei diritti di trasmissione per i prossimi anni, che non hanno assolutamente soddisfatto i club, i quali si aspettavano di incassare una cifra, a stagione, ben superiore al miliardo di franchi. In attesa di un possibile rilancio, il governo ha fatto il suo, varando una normativa più stringente contro la pirateria, i cui numeri sono da capogiro, non solo per i mancati introiti ma, soprattutto, per il numero di utenti abusivi. 
In occasione del varo di questa normativa, soprattutto sui telegiornali in chiaro dei network televisivi proprietari dei diritti, è stata fatta una campagna pubblicitaria contro la pirateria, ricordando all’utenza che il frutto di questa attività illegale finisce nelle casse della criminalità organizzata. In realtà, non sappiamo se le famiglie mafiose si spartiscano anche questa torta, lucrosa ma mai come il mercato degli stupefacenti e tutto il resto, mentre sembrerebbe, da statistiche basate più che altro sul sentito dire (improbabile che una persona risponda a una ricerca demoscopica finalizzata a scoprire se fa uso o meno di tecnologia vietata per guardare programmi televisivi a pagamento), che la maggioranza degli utenti del famigerato “pezzotto” (il nome in slang dell’apparecchiatura che consente di aggirare i blocchi delle emittenti a pagamento) sia di cultura medio/alta, e quindi forse più sensibile a questi messaggi. O forse no, chissà. 
La terza parte della telenovela è stata la pubblicazione dei listini per la stagione entrante. Nel 2021 l’abbonamento a DAZN (che detiene i diritti per la serie A) costava all'utente 29,99 euro, mentre oggi ne vengono chiesti 55,99, il tutto al netto dei problemi tecnici subiti da tanti utenti (il servizio, come sappiamo, viene offerto in streaming, e non via satellite). C’è poi tutta una serie di opzioni, che consentono di risparmiare qualche euro, rinunciando però alla possibilità di vedere la partita fuori casa, o che legano il consumatore a non sciogliere il contratto per un anno, tutti vantaggi che erano invece previsti all’avvio del servizio. Insomma, un passo indietro per l’utenza la quale, probabilmente, col varo della nuova normativa (che, in teoria, dovrebbe consentire alle aziende di incassare buona parte del denaro che prima finiva nelle tasche dei criminali informatici) pensava di poter fruire di qualche vantaggio, e non, al contrario, di venire punita economicamente. E lo pensavano, soprattutto, i vecchi utenti. 
E ora? A parlare sarà il mercato. Quello che è certo è che un vero appassionato non vorrà privarsi della possibilità di vedere le partite delle coppe internazionali. Ma se così vorrà fare, oltreconfine, dovrà aprire ancora il portafoglio, arrivando a spendere tra gli 80 e 90 Euro mensili. Per chi, mediamente, ne guadagna circa 1.600 nello stesso periodo, un salasso inaccettabile. Non è un caso (dati Auditel) che il passaggio della Serie A dal satellite allo streaming sia stato pagato con un calo del 29% degli abbonamenti: francamente, pensiamo difficile che questa campagna abbonamenti possa creare una controtendenza. 
Preoccupa il fatto che, almeno per lo sport, non decolli la pay per view. Evidentemente, lasciare piena libertà allo spettatore di pagare solo ciò che intende vedere non è considerato conveniente. Non è un caso, quindi, che almeno i grandi club vendano tantissimi abbonamenti per andare allo stadio: vero che bisogna aggiungere i costi e i disagi del trasporto, ma al di là dell’emozione di essere presenti, assolutamente impagabile, dal punto di vista economico la cosa inizia a essere concorrenziale, anche se si dirà che poi bisogna considerare le trasferte, non coperte dall’abbonamento allo stadio. Ma qua si entra in un altro ambito: che è quello che, a fronte di certi impegni economici, si comincia seriamente a pensare che il calcio non è un bene primario. Aggiungiamoci le tante vicende che hanno segnato la Serie A negli ultimi tempi, il calo dei grandi campioni che scendono sui campi da gioco della vicina Penisola, un certo disamore da parte delle giovani generazioni (in Ticino, per esempio, i ragazzi appassionati di calcio, accanto a quelle del proprio paese, tifano sempre più per squadre inglesi, a scapito di quelle d’oltre confine), e il gioco è fatto. 
Non siamo dirigenti delle grandi imprese televisive. Tuttavia,  prendiamo il treno, l’autobus, consumiamo spesso pasti fuori casa, frequentiamo i social, anche per motivi professionali. Non pretendiamo di avere il polso esatto della situazione: però abbiamo sentito tanti che si accontenteranno di avere le informazioni sul risultato e di vedere i riflessi filmati gratuiti a fine gara. La nostra nonna diceva che è meglio incassare 5 franchi da 20 persone che 30 da 2, che chi non può spendere 30 non li tirerà fuori, e si terrà la voglia. Ma, se costasse meno, magari. Forse la soluzione pay per view, che tanto infastidisce perché, per prima cosa, definisce i veri rapporti di forza e, secondo alcuni, potrebbe far venir meno i presupposti della mutualità, andrebbe provata, a questi livelli, anche se in altri paesi qualcuno sta facendo un passo indietro. Diversamente si va incontro, secondo noi, a un disastro economico. Al netto del fatto che certe decisioni (la situazione della Serie B italiana è oltre i limiti della comprensione, evitando di ritornare sulle questioni della Serie maggiore) non fanno bene al sistema. Che se, davvero, vuole provare seriamente a insidiare la Premier nei mercati esteri, dovrà diventare più credibile. Tre finali europee (perse, tra l’altro) non bastano di certo.