Stephan Lichtsteiner è stato per molti anni l’emblema di una
certa “svizzeritudine”. In una selezione nazionale che da decenni è
multietnica, il terzino lucernese era l’idolo della Svizzera antica, che ancora
resiste nelle valli superiori del Ticino. Poco adusi alla mescolanza tra
popoli, noi vallerani vedevamo in Lichtsteiner una tradizione primitiva
risalente ai miti di fondazione. E tra di noi, pure qualche illustrissimo come
il presidente cantonale Norman Gobbi avrà certamente vibrato alle cavalcate del
lucernese. Gobbi che è tifosissimo dell’Ambrì e delle radici, propenso a
qualche gaffe dovuta alla troppa passione, certamente. Insomma, per farla
breve: in tutti i bar a ridosso delle Alpi si faceva la conta: ma quanti veri
svizzeri abbiamo in nazionale? Si arrivava alle dita di una mano, e il dito
presente da sempre si chiamava Lichtsteiner.
Capitano e giocatore fumantino, capace di inserimenti
fulminei e anche buon realizzatore. Il meglio lo ha dato con la Juventus (segnò
il primo gol allo Stadium appena inaugurato, tra l’altro). Ma nonostante quella
casacca, continuava fieramente a simboleggiare la ruralità da Grütli e dalla
Valmaggia alla Valle Bedretto, passando per Riviera, Blenio e Leventina, era un
simbolo inscalfibile.
Ora che ha smesso col calcio, diventerà ambasciatore
dell’Hockey (!) Club Lugano, oltre che azionista.
Occhio.
Potrebbe essere che il credito costruito in quasi due
decenni nelle nostre montagne crolli in modo fragoroso. Ho idea che per
recuperare la stima incassata con la sua elveticità a tutto tondo, non basterà
nemmeno il metaforico “passo del montanaro” a percorrere i sentieri a capo
chino. O col viso tinto di nero, senza peraltro esagerare o accostarsi ad Anson
Carter.