Troppo
grave l'errore commesso durante Bologna-Juve. I vertici arbitrali
italiani si sono sentiti sotto pressione e hanno deciso di rendere
noto il colloquio intervenuto tra l'arbitro e la sala Var. Un dialogo
degno, si fa per dire, di un film di Bunuel. Di Bello era sicuro in
campo non era successo niente. “Un attimo. Buono. Fammi vedere
un'altra prospettiva. Ok. Per me no”, queste le parole
incredibili del duo Fourneau-Nasca davanti al monitor, bontà loro e
che vista. L'introduzione della tecnologia doveva aiutare, lo scopo
era quello di evitare errori clamorosi, dissipare sospetti,
allontanare polemiche. Ma perché non funziona? Semplice gli arbitri
non sono convinti del Var. Non lo sopportano. Lo considerano come
un'intrusione. Essendo potenzialmente un giudice imparziale non
vogliono legittimarlo. La classe arbitrale è chiusa. È tetragona
rispetto alla trasparenza. È una casta autoreferenziale. Carriere,
promozioni, giudizi tutto avviene tra colleghi ed ex colleghi. La
solidarietà prima di tutto. Il fortino da difendere strenuamente.
Gli arbitri non vogliono perdere il loro potere, vogliono essere i
decisori finali, vogliono essere protagonisti. La tecnologia mina
eccessivamente la loro discrezionalità. L'intervento del Var
determina un giudizio negativo sull'operato del direttore di gara,
gli vengono tolti dei punti. Di Bello non aveva dubbi, si era
convinto di aver ragione, nessun contatto in area juventina, non era
necessario il Var. Ecco di conseguenza il protocollo farraginoso e
fumoso circa l'utilizzo della tecnologia. Regole cervellotiche che
portano nel territorio dell'ambiguità. E se l'intervento fosse
automatico? E se a decidere fosse la sala Var? E non l'arbitro in
campo sottoposto alle pressioni di giocatori, allenatori e tifosi.
Perché gli arbitri non diventano professionisti? Quindi sottoposti a
un giudizio di organi indipendenti e autonomi.
Calcio
Chi ha paura del Var?
L'uso della tecnologia suscita discussioni e polemiche