CALCIO
"Con Sacchi meno spazio alla creatività"
Il Corriere della sera dedica una lunga intervista a Gianfranco Zola, che "attacca" l'ex allenatore del Milan
Pubblicato il 04.09.2023 21:26
di Red.
Magic box, come lo chiamavano in Inghilterra. Gianfranco Zola è stato forse il giocatore che a Napoli, è stato quello più vicino a Maradona.
Il Corriere della sera gli ha dedicato un bella pagina, parlando del valore del numero 10 sulla maglia e di un calcio che è cambiato molto rispetto a quando giocava lui.
Eccone uno stralcio:
Gianfranco Zola, lei che l’ha indossata tante volte: cosa significa il numero 10 sulla maglia di un calciatore?
«Vivevo di emulazione, non avendo il calcio di qualità vicino mi abbeveravo a quello che vedevo in televisione e liberavo le fantasticherie di un bambino che guardava i calciatori e cercava di copiarli, di imparare da loro. E quelli a cui mi ispiravo avevano tutti le stesse caratteristiche: grande tecnica, grande inventiva, grande creatività. Quei giocatori, sempre o quasi, indossavano la maglia numero dieci. Per me quel numero, quel modo di giocare era la bellezza del calcio, il suo Dna».
Chi erano i suoi riferimenti in quel momento?
«Michel Platini, Zico, Maradona. Con uno di loro, Diego, ho avuto anche la possibilità di allenarmi e di giocare. E quella penso sia stata la svolta della mia carriera».
Stiamo alla definizione di Platini che distingue, nel numero dieci, i registi e i fantasisti... Lei a quale delle due categorie è appartenuto, come giocatore?
«Ci sono dei numeri dieci che sono più portati a creare gioco, sono più bravi nella manovra e altri che sono più finalizzatori, credo che Michel, nella vostra intervista, li chiamasse “nove e mezzo”. Io credo di appartenere di più a questa seconda interpretazione del ruolo».
Non le sembra che il numero dieci, quell’impasto di regia e creatività, sia sparito nel calcio moderno? 
«È un processo iniziato alla fine degli anni Novanta con Sacchi. Con lui si è cominciato a dare molto meno spazio alla creatività e molto di più all’organizzazione. Prima tutte le squadre erano strutturate allo stesso modo, con difese molto forti e marcatori capaci di annullare gli avversari. I due centrocampisti che recuperavano la palla la davano al numero dieci, o comunque al regista, che creava gioco, inventava l’assist per il bomber. Si lavorava molto per difendere, recuperare e impostare. Con Sacchi si è arrivati a una struttura più rigida, con i quattro centrocampisti, il 4-4-2, si faceva un grande pressing, tutti partecipavano alla manovra... Il fantasista doveva rientrare rigidamente in uno schema tattico predefinito. Non era come prima, quando il numero dieci era libero di andare dove voleva, seguire la palla, impostare la manovra».
Lei ha sofferto in questa rigidità?
«Io ci sono passato in mezzo, ero uno di quei giocatori che per inserirsi nel modello tattico di Sacchi doveva trovare un ruolo che però non era il mio: o facevo l’esterno di destra o di sinistra o la seconda punta. Anche Roberto Baggio si è trovato nella stessa condizione. Ora, ancora di più, tutti cercano di attaccare, di mantenere il possesso di palla, ma in un contesto tattico molto rigido e di conseguenza il numero dieci o diventa un sette, un undici o un finto nove. Il dieci non esiste più».
Anche nel calcio si è persa un po’ di fantasia e forse un po’ di libertà.
«A me nessuno si è mai sognato di dirmi, quando avevamo la palla noi, “Vai di qua o vai di là, fai così o fai colì”. Io diventavo matto, quando cercavano di imbrigliarmi. Qualche allenatore ci ha provato, ma non era per me. Al mio amico Luca Vialli, dicevo: “Tu dimmi come vuoi la palla, poi a come fartela avere ci penso io, non preoccuparti”. 
I grandi numeri dieci non erano dei superuomini, in termini di altezza e prestanza fisica.
«Sì ma non si faccia ingannare dai centimetri. Tutti noi, anche io, avevamo dei dati di esplosività muscolare che facevano impressione. Maradona aveva delle gambe da far paura. Il bello del calcio è che in fondo è complesso. Si può far bene in molti modi diversi. Si può essere grandi o piccoli, avere il centro di gravità più o meno basso, ma, se si ha talento, alla fine questo emerge».
Della vicenda Mancini cosa pensa?
«Sono rimasto sorpreso. Se devo essere sincero, non me lo aspettavo. Roberto ha fatto un grande lavoro, quando ha vinto l’Europeo. Non solo per il risultato, ma per il modo, lo stile in cui lo ha raggiunto. Dopo l’eliminazione ai mondiali io sono tra quelli che ha sostenuto lui dovesse continuare. Pensavo volesse arrivare ai mondiali. Sono, anche per questo, sorpreso e molto dispiaciuto della sua rinuncia».
Se lei potesse fare un assist a un giocatore della storia del calcio, chi vorrebbe rendere felice?
«Gigi Riva. Mi sarebbe piaciuto giocare con lui».