Sono lì che guardo le tribune vuote
del San Giacomo, immense nella miseria del momento, e mi è venuto in
mente che proprio ieri eravamo appollaiati alla Valascia. Un derby da
vedere per ore e ore e che quando arriva il via siamo già sfibrati
dall’attesa e dai versacci. Ci sono venuto col Gabi e la sua Alfa
senza catene, siamo fanatici. Male che andrà (e va spesso male coi
cugini già carichi di gloria) ci ubriacheremo aspettando l’alba
gelata di montagna. Loro sono davvero uno squadrone e fanno anche
valere i muscoli sotto le maglie nere come le vele di Omero. I nostri
invece stanno in bianco, come verginelle. Dico dei colori perché in
quegli anni Ottanta l’Ambrì gioca in bianco alla Valascia e in blu
fuori. Comunque anche per loro, quelli a sud, venire su è sempre una
tortura, sanno che bisognerà togliersi parecchie paglie dal culo per
portarla fuori.
La curva ondeggia di lato a ogni check,
pencola in avanti quando qualcuno sta per tirare, crolla a ogni gol.
Ci sono emozioni che non sono descrivibili, è qualcosa come una
morfina che ti fa stare lucidissimo ma al tempo stesso ottuso. Non
sei nel mondo, la sola realtà è il gioco, la folla, le voci.
L’attesa.
Ci sono questi ultimi due minuti e
siamo pari, la Valascia sembra sospesa come un’astronave. Il Gabi
ha quasi finito le imprecazioni, io non so. Ma comunque lo vedo
ancora, il Luca Viganò, in quella sospensione extraterrestre, lui
che è un giocatore duro e bizzoso, indisciplinato e imprevedibile,
ma pieno di inventiva e talento. Penso che senta la partita come
nessuno, ha collezionato penalità e insulti. Ma è lì in quel
momento giusto. Il Gabi mi stringe un braccio, ha capito, siamo tutti
muti mentre il Viganò finta in velocità un ignoto in nero e scaglia
il disco verso il portiere.
Prima che entri in gol, la curva è già
crollata in fondo, come a voler baciare la terra sacra della
Valascia.
Il Gabi piange, io ho le orecchie in
frantumi e il Luca Viganò sta facendo il giro della pista
sbeffeggiando tutti.
Oggi è la fine.