CALCIO
Il modello City
Non solo Manchester, ma tante altre squadre per un progetto che vuole conquistare il mondo
Pubblicato il 09.02.2024 08:25
di Red.
Ci sono voluti quindici anni, per raggiungere l’obiettivo della Champions League. Solo la scorsa primavera il Manchester City ha messo in bacheca la sua prima coppa europea dai tempi della Coppa delle Coppe del 1970. Non era bastato dominare il campionato più competitivo del mondo, la Premier League, serviva quella coppa lì, e la squadra di Mansour bin Zayed Al Nahyan, vice primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, ha impiegato tre lustri per completare questo percorso.
Da quando lo sceicco lo ha rilevato nel 2008, il club inglese ha seguito un percorso di crescita non così lineare: ci sono voluti investimenti che solo una monarchia del Golfo Persico può permettersi. E se in quindici anni puoi mettere sul tavolo due miliardi di euro, prima o poi i risultati arrivano. Solo che la Champions League non era l’unico traguardo da raggiungere. O meglio, era l’obiettivo del Manchester City e dei suoi tifosi, ma non quello del City Football Group (CFG), la multinazionale che controlla il club e che sta costruendo un impero calcistico globale, di cui la squadra inglese è solo un tassello, certamente il più importante, ma pur sempre un tassello.
Il modello del CFG è ormai conosciuto: è un’idea di calcio e di impresa geograficamente trasversale, con 14 club sparpagliati su tutti i continenti. Tra proprietà e partecipazioni minoritarie, l’impero del City Football Group va dall’Europa all’Oceania, dall’America all’Asia: oltre al Manchester City ci sono Troyes, Girona, Lommel, Palermo e Vannes in Europa, poi New York City (Stati Uniti), Melbourne City (Australia), Yokohama Marinos (Giappone), Torque (Uruguay), Sichuan Jiuniu (Cina), Mumbai City (India), più Bolívar (Bolivia) e Bahia (Brasile). L’integrazione tra questi club è prima di tutto sportiva: gli allenatori delle prime squadre fanno riferimento – con le dovute necessità e possibilità – al gioco di posizione di Guardiola e all’idea di calcio che il tecnico catalano porta in campo fin da inizio carriera.
Ma si va oltre il campo. Ogni squadra ha una persona responsabile per la parte commerciale (il Coo) e una che cura tutti i dettagli della parte sportiva (il direttore sportivo), sempre in contatto con Manchester, vero centro di comando di tutta l’organizzazione. Tutti i segmenti delle diverse società devono essere in costante dialogo per funzionare come un sistema unico: dagli allenatori ai magazzinieri, tutti hanno compiti standardizzati, come in fabbrica; i medici dei club condividono informazioni e ricerche sugli infortuni e sulle tecniche di recupero, gli scout hanno parametri di riferimento per il tipo di giocatore su cui investire. Per organizzare un sistema di questo tipo, il CFG ha individuato dei criteri universali condivisi da tutte le parti: creare una sinergia interna porta una maggiore uniformità della strategia tecnica ed economica, consente di ridurre i costi e aiuta a generare vantaggi di scala che le altre società, quelle che non appartengono a una galassia così grande, non possono avere.
I metodi di lavoro del City Football Group riprendono le linee guida di una grande squadra dell’aristocrazia europea. Lo schema somiglia a quello del Barcellona, in tante cose: l’integrazione tra squadre di diverse categorie, l’adozione di una filosofia tattica condivisa, la capacità di individuare e sviluppare il talento giovane da lanciare in prima squadra, l’idea di costruire più di un semplice club di calcio forte, fortissimo, che può vincere qualsiasi cosa. Non a caso i vertici del Manchester City e del City Football Group hanno tutti radici in Catalogna: in cima alla piramide siedono l’amministratore delegato Ferran Soriano e il direttore sportivo Txiki Begiristain, entrambi ex Barça. 
La proprietà emiratina, come poi avrebbe fatto anche la famiglia reale qatariota e ancora dopo quella saudita, ha scelto l’Europa perché è qui che si fanno affari con il calcio. In fondo, avrebbero potuto portare il loro progetto ovunque, costruire una bolla calcistica in qualsiasi parte del mondo come  sta facendo adesso l’Arabia Saudita nel suo campionato nazionale. Avrebbero potuto farlo in Cina, in Australia, negli Stati Uniti o in qualsiasi altro continente. Ma è l’Europa, ancora, e lo sarà ancora a lungo, il centro del mondo. È qui che si fanno affari intorno al pallone. Non solo in maniera esplicita e visibile, quindi con i proventi dei diritti tv, degli sponsor e del calciomercato. Molto spesso gli interessi sono meno intuitivi, meno leggibili: per i Paesi del Golfo, quindi per i loro politici e i dirigenti delle loro imprese statali, i grandi appuntamenti sportivi sono ottime piattaforme per avere contatti e un dialogo privilegiato con persone di prestigio, che sono presidenti di altre aziende, leader politici, un parterre di persone con cui è più facile iniziare una conversazione dalla tribuna d’onore di uno stadio. Ecco perché non incide solo il livello calcistico delle partite, ma anche la realtà economica e politica delle antiche liberaldemocrazie europee. Qui si possono fare affari con maggiore libertà: da trent’anni l’Europa è terra di libera circolazione di uomini, merci, servizi, capitali; qui si possono spostare asset calcistici o economici facilmente. 
È grazie all’Europa, in un certo senso, che sono cresciuti tutti i satelliti del Manchester City. Finora nessuna delle squadre minori è riuscita a brillare particolarmente. Ma potrebbe essere solo questione di tempo. Il Girona sta facendo una stagione da protagonista assoluto ai vertici della Liga. Potrebbe essere l’embrione di una nuova fase del progetto, quella in cui anche i satelliti devono iniziare a crescere, alzare ancora il livello per affiancare il Manchester City tra le squadre di vertice dei migliori campionati europei. 
(Tratto da rivistaundici.com)
(Foto Keystone)