Si
era sul finire degli anni Ottanta e il calcio stava per chiudere con
il suo passato recente, ritenuto onusto e imbolsito. Voleva entrare
in una dimensione moderna; intendeva diventare spettacolare; il
principio ordinatore era quello di potenziare le sue capacità di
attrazione: il tifoso era fedele, ora bisognava concupire lo
spettatore. All'epoca le rose erano ristrette, la panchina era corta;
i numeri dei giocatori andavano dall'1 all'11 e identificano un ruolo
preciso da occupare sul terreno; le formazioni erano da recitare e
rimanevano immutabili per anni; i vivai sfornavano calciatori che
costituivano le basi delle squadre. I biglietti, tranne quelli della
tribuna centrale, non erano numerati, allo stadio bisognava recarsi
con largo anticipo, molti non avevano copertura e se il tempo non era
clemente, si prendeva anche l'acqua e la catarsi era quasi completa.
Il football era un rito, uno dei quelli che resistono pervicacemente,
possono subire dei cambiamenti, ma rimangono saldi in un consesso
sociale, poiché dotati di una potenza intrinseca inaudita, quasi
misteriosa. La Serie A era ricca e opulenta. Presidenti mecenati
dominavano il mercato. La panchina dell'Inter era affidata a Giovanni
Trapattoni, aveva abbandonato Madama e si era lasciato ammaliare
dalla Beneamata, era pur sempre nato a Cusano Milanino. Le sue prime
due annate erano state ai limiti della delusione. Ecco la stagione
1988-89, l'Inter si rafforzò sul mercato: con Matthaus, ritenuto uno
dei migliori centrocampisti europei; Berti, considerato un talentuoso
della mediana; Bianchi, ala destra esile, ma tecnico e di
intelligenza tattica sopraffina. Per caso arrivò il centravanti
argentino Diaz, il prescelto era stato individuato in Rabah Madjer,
il tacco di Allah. L'algerino era stato l'inatteso uomo-partita della
vittoria del Porto contro il Bayern, nella finale della Coppa dei
Campioni del 1987, non passò le visite mediche e l'Inter prese Diaz.
A sorpresa arrivò anche, fu inserito nella trattativa Matthäus, un
terzino sinistro: Andreas Brehme. Fu acquistato per una cifra che
superava di poco il miliardo di lire. La fascia sinistra, è una di
quelle porzioni di campo che costituiscono, da sempre, l'incubo dei
tifosi interisti. Pochi calciatori sono rimasti indenni dai mugugni
di San Siro. E per gli interisti scattò inesorabile: “Non ci
credo”, questa l'espressione che connotò, immediatamente, le
prestazioni di Brehme. Era un formidabile terzino che sapeva giocare
a calcio con entrambi i piedi, avviava la manovra dalla retrovie,
crossava con una precisione chirurgica, traiettorie composte e
precise. Era mancino e batteva i rigori di destro. Biondo, composto e
tedesco divenne un idolo, e non poteva essere altrimenti. Era un
crepuscolare, un formidabile interprete di un calcio andato e che non
tornerà mai più. I milanesi conquistarono un clamoroso scudetto, il
campionato era a diciotto squadre, i punti ottenuti furono 58 su 68
disponibili. Il racconto parla dell'Inter dei record. Brehme ne fu
l'emblema, fu un attore che si prese con garbo, stile ed eleganza la
scena. Se la meritò. La storia siamo noi canta De Gregori, tutti
possiamo avere un posto, tutti possiamo essere ricordati. Si può
assurgere a protagonisti all'improvviso.
(Nella foto Keystone, Matthäus e Brehme)