CALCIO
Bugìa o fraintendimento?
Qualcuno, nella vicenda Acerbi-Juan Jesus, non dice la verità: o forse è tutto un malinteso...
Pubblicato il 28.03.2024 11:27
di Silvano Pulga
Sulla questione Acerbi-Juan Jesus, che ha infiammato la vicina Penisola, complice anche la sosta per le nazionali, alla fine si è espressa la giustizia sportiva, con decisione inappellabile: "(...) non si raggiunge nella fattispecie il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto sicuramente discriminatorio dell'offesa recata, (…) il contenuto discriminatorio (...) risulta essere stato percepito solo dal calciatore offeso, senza dunque il supporto di alcun riscontro probatorio esterno, che sia audio, video e finanche testimoniale". Viene quindi fatta una distinzione importante tra il non aver commesso il fatto (e non è questa la casistica), e l'impossibilità di provare che sia o meno avvenuto. A questo punto vale tutto, compresa l'opinione di chi sostiene che JJ si sia inventato tutto, e quelle di chi ha visto una difesa balbettante sin dall'inizio, e sostenuta da una tesi quantomeno singolare ("Gli ho detto 'Ti faccio nero' "), costruita giorni dopo l'accaduto, fondata probabilmente sulla scommessa che non sarebbero emersi altri filmati o testimonianze che potessero confermare o smentire le tesi dei protagonisti. Non si viene condannati senza prove, insomma: ed è un principio di civiltà giuridica.
Però, proprio perché sportiva e sommaria, questa giustizia si basa su un obbligo di lealtà che invece, nella vita reale, non esiste: non c'è infatti obbligo di testimoniare contro sé stessi. La verità la deve scoprire il giudice, solo il teste ha l'obbligo di dirla. Nello sport, invece, il principio di correttezza imporrebbe di dire sempre le cose come stanno: da lì il concetto generico di comportamento antisportivo, proprio perché contrario a questi valori fondanti. Dopodiché, l'assenza di prove impedisce all'atleta coinvolto di essere del tutto scagionato, se non dai propri tifosi.
Il "ragionevole dubbio" che sorge da tutta una serie di condotte mantenute nella vicenda dai protagonisti doveva essere sostituito da una dichiarazione condivisa su come sono andate realmente le cose, in nome dell'obbligo di lealtà sportiva che, appunto, nell'ordinamento "civile" non esiste; e così non è stato. Detto tra noi, in nome di questo principio, e di quello dello spogliatoio, luogo sacro per eccellenza dello sport (anche se l'espressione "cose di campo" che regala la sensazione che si tratti di un ambito avulso da ogni codice, ha indignato parecchi, essendo tutto tranne che "civiltà giuridica") probabilmente Acerbi, a Spalletti, ha raccontato la versione reale, e non è un caso che lo si sia lasciato tornare a casa, per potersi "difendere meglio" ma, forse, per il timore che arrivassero filmati o testimonianze a supporto di una delle due tesi.
Qua abbiamo dichiarazioni contraddittorie: è evidente che uno dei due racconta frottole o, dando per certa la buona fede, che possa esserci stato, quantomeno, un fraintendimento. Dopodiché, in questi casi, e lo si ribadisce, giusto astenersi: ma qua non si è stabilita una verità processuale, ma l'impossibilità di poterla ottenere, per l'inesistenza di prove. E, va detto, sinora non ne esce benissimo, dal punto di vista comunicativo, la società lombarda, la quale dovrebbe forse curare maggiormente anche i social di tesserati e familiari. Siamo dell'idea, infatti, assieme a una buona e nutrita compagnia, che non ci fossero, nell'occasione, buoni motivi per brindare.   
(Foto Keystone/Tarantino)