Andrey
Rublev è tra i primi dieci giocatori al mondo. La sua carriera parla
di un potenziale inespresso. È il classico perdente di successo. Ha
colpi fenomenali, ma è incapace di vincere un grande titolo. Viene
inserito nella categoria dei “pazzi”, un limite che non riesce a
superare e che lo intrappola. Colpisce la palla in modo intenso e
forte. Si pone come un esistenzialista, ogni partita per lui segna un
confine oltre il quale non si può andare. La sua sfida è quella di
rimanere concentrato, ma spesso non ci riesce e diventa teatrale e
sofferente. Diventa preda del tormento, grida, si lamenta verso il
suo angolo, si mangia la maglia, ride grossolanamente, spacca la
racchetta. Il talento è evidente, come le sue incertezze interiori.
Le sue dichiarazione non sono mai banali: “Ancora non mi sento
un top player. Non so perché. Sento di aver paura di non essere
all'altezza”. È un atleta “umano”, mostra le sue debolezze
e non si dà per vinto, vuole reagire. Ecco la sua filosofia: “Essere
gentili e godersi il tennis”. È stato recentemente
intervistato da “L'Equipe”, dove ha parlato della sua
continua ricerca di un equilibrio. Arriva da un tour americano
negativo. Spiega: “A Indian Wells ho cercato di
controllare le mie emozioni e sono stato piatto. Senza energia e
senza il minimo fuoco interiore”. A Miami: “È stata
un'altra cosa: sono crollato, non riuscivo a trattenere i nervi. Nel
tentativo di essere calmo e motivato, ho perso completamente me
stesso. Ero paralizzato, il mio corpo non rispondeva”.
Aggiunge: “L'allenamento è una cosa, la competizione è
un'altra. Spesso ti apri alle emozioni estreme e alla sensazione di
essere costantemente sulle montagne russe”. Conclude: “Resto
convinto che al livello in cui siamo, tutti sanno fare un dritto, un
rovescio, un servizio. Va avanti chi è pronto mentalmente, il più
calmo, il più capace di accettare ciò che accadde al momento. I
migliori sanno fare in modo che un brutto colpo sia sopportabile”.
(Foto Keystone)