Il Giro che si conclude
domani a Roma continua a catturare un’attenzione pazzesca. “Pogacar lascia a
bocca aperta gli spettatori” (‘Tuttosport’), per lo sloveno sono stati
‘coniati’ soprannomi invero originali (alieno, squalo, marziano, ‘cannibale’…).
Hugo Koblet (1925-1964) primo straniero a vincere il Giro d’Italia, era più
elegantemente conosciuto come ‘le pédaleur de charme’. Walter Lutz (1921-2014),
direttore del trisettimanale ‘Sport’, lo aveva definito “un uomo di classe
innata”, per gli italiani era “bello di fama e di sventura, come direbbe il
poeta, Koblet è stato – col suo volo da arcangelo cui presto furono tolte le
ali – un campione destinato a lasciare nel ciclismo una traccia profonda”.
Con l’arrivo vittorioso a
Locarno, ancora con Fritz Schär in maglia rosa (dalla seconda tappa), Koblet si
aggiudicò la 33.esima edizione davanti a Bartali e ad Alfredo Martini, Kübler
finì quarto. Hugo fu primo anche sul traguardo di Vicenza (ottava tappa), con
la conquista della maglia rosa che avrebbe portato sino a Roma. Un aneddoto
curioso che Gian Paolo Ormezzano (1935), già direttore di ‘Tuttosport’, narra
nella sua ‘Storia del ciclismo’: “Per l’Italia quello era l’anno Santo,
l’ideale sarebbe stato avere in Vaticano per l’udienza speciale con il Papa,
Gino il pio in maglia rosa. Invece si presentò Koblet, calvinista, cioè il più
anticattolico dei protestanti. Pio XXII parlò a Koblet in tedesco, si svolse
davvero un dialogo ad alto livello. Con le guardie svizzere attente e ammirate.
Un altro protestante elvetico, Kübler, si commosse, disse che voleva baciare
l’anello del Papa ma, intimidito, restò appoggiato a una colonna mentre Koblet
presentava al Papa sua madre”.
Da un periodico illustrato
della ‘rosea’: “Una magia rosa per il bell’Hugo. Al Giro emerge un biondo
atleta venuto dalla Svizzera, si chiama Hugo Koblet. Deve avere letto i
consigli di monsignor Della Casa se, ogni volta che si approssima l’arrivo, si
rialza per pettinarsi e rendersi presentabile alle ammiratrici”.
‘Nessuno è straniero’. Alcuni
passaggi di un editoriale, definito ‘storico’, di Gianni Brera (1919-1992), che
ha lasciato una profonda impronta sul giornalismo sportivo: “Tabù nelle 32
edizioni precedenti, il nostro Giro è stato vinto quest’anno da uno straniero.
In sede teorica, allorché molto si lavorava per attirare alle corse italiane il
fior fiore dell’altrui ciclismo, tale esito veniva persino invocato da noi e da
quanti hanno a cuore le sorti dello sport. Né l’affermazione di Hugo Koblet ci
coglie ora con l’amaro in bocca. Anzi ci esalta la sua impresa come e più
l’avesse compiuta un italiano. Perché nello sport non vi sono stranieri, lo
sport è affermazione di vita nelle sue forme più limpide e leali”.
“Abbiamo udito molti
deprecare che non fosse un italiano a vincere il Giro. Taluni, per fortuna
pochi, hanno anche peccato di buon gusto nel far tragico l’evento, quasi che
qualcosa venisse sottratto al valore dei nostri per la vittoria di un giovane
che, bello e splendente di mezzi, ai nostri non è per nulla inferiore. Ebbene,
noi abbiamo ora l’intimo orgoglio di poter, primi, salutare in Hugo Koblet la
grande rivelazione del ciclismo mondiale, il campione completo, l’asso
autentico. È bello, ci sembra, che sia stato proprio il nostro Giro a
consacrare così meritevole atleta”.
“Egli ha lottato con leale
impegno per il suo buon nome e per lo sport del suo Paese: ma dalla sua
prodezza viene illustrato anche il Giro, dunque il nostro sport che al Giro ha
dato vita per 33 anni. Hugo Koblet merita che gli sportivi italiani l’abbiano a
salutare d’ora innanzi come l’hanno salutato con simpatia lungo gli itinerari
della nostra maggiore corsa a tappe. Il ciclismo mondiale ha trovato in lui un
alfiere degno, per quanto giovane ancora, dei nostri campioni maggiori”.
(…) “Lo sport non ha barriere
di sangue, né d’opinioni. Nello sport non vi sono e non vi debbono essere
stranieri. Vi sono atleti – grandi e meno grandi – che lottano per prevalere in
leali competizioni agonistiche. Hugo Koblet è uno di questi”.
I ‘pensieri’ di Brera, in
carriera anche direttore della ‘Gazzetta’, avevano lasciato il segno anche in
Ticino.
“Quel grande maestro di
giornalismo che fu Gianni Brera – leggiamo in un pezzo di Tiziano Colotti
(1929-2010) – citando il verso di Dante nella Divina Commedia dedicato al
principe Manfredi – volle ricordare anche la gentilezza d’animo di Hugo che lo
aveva affascinato non solo per le sue straordinarie imprese sulle strade
europee ma soprattutto per la simpatia che il ‘pédaleur de charme’ irradiava in
tutti. Ho conosciuto personalmente Koblet, diventato commentatore radiofonico,
in Belgio seguimmo un mondiale della pista. Era un uomo bonario, modesto e
umile. Una vita troppo crudelmente breve la sua, che mi ha lasciato nella mente
e nel cuore un ricordo commosso, affettuoso, indelebile”.
Anche Sandro Picchi (1941), ne
‘La storia del ciclismo’, sua opera ‘monumentale’ in fascicoli, riconosce le
qualità e capacità di Hugo: “Primo straniero a vincere il Giro nel ’50 correndo
agli ordini di quel sapiente tecnico che dimostrò di essere Learco Guerra, fu
protagonista di un epico duello con Fausto Coppi sullo Stelvio tre anni dopo, nel
Giro 1953 che pareva già suo, ma l’attacco del campionissimo lo costrinse alla
resa e al secondo posto. L’ ‘angelo biondo’ dallo stile perfetto non è stato
sempre fortunato, pur essendo un formidabile cronoman non è mai riuscito a
diventare campione del mondo dell’inseguimento”.
Emilio Colombo (1884-1947),
ex calciatore poi redattore e anche direttore di ‘Gazzetta dello Sport’ (e del
‘Guerin’), di Guerra corridore aveva tracciato l’immagine di ‘locomotiva
umana’. Per Rino Negri (1924-2011) “il campione di Mantova cavalcava la
bicicletta con tale imperio e tanta potenza da giustificare l’iperbole”. In un
opuscolo del ’53 in cui si pubblicizza ‘Cicli Learco Guerra, la marca che ha
lanciato Hugo Koblet e ha ripreso la costruzione della bicicletta Locomotiva –
l’ammiri ad occhi spalancati, la comperi ad occhi chiusi’, a ‘Learcone’ –
campione d’Italia su strada a 40 anni (!), sesto titolo dopo i cinque
consecutivi – viene dedicata la ‘canzone del campione del mondo’.
In squadra con Hugo c’erano i
fedelissimi gregari Gottfried e Leo Weilenmann. Fritz Schär correva per la
Arbos, Ferdy Kübler era con la Fréjus.
(Foto Keystone)