Che il calcio abbia un'origine
popolare è innegabile. Che il calcio sia un formidabile romanzo popolare è
indubbio. Che il calcio sia un rito, pure nella modernità, è acclarato. Uno
stadio ha la capacità di aggregare, ha la forza di essere un luogo sociale. Una
squadra rappresenta un territorio, è identitaria: i colori, una maglia sono
simboli potenti. Ma di chi è una squadra? La risposta romantica dovrebbe
essere: dei tifosi, degli appassionati. Ma il calcio è cambiato, in maniera inesorabile
e ineluttabile. Per gestire una società
servono ingenti mezzi finanziari, lungimiranza e programmazione. Il
proprietario autoctono non esiste più. È evaporato. È il retaggio di un tempo
che non ritornerà più. La vicenda del contratto di Sabbatini è una storia
particolare, il racconto non è costruttivo. I rilievi mossi alla società sono
speciosi. E la reazione dei critici è scontata. La petizione digitale è
l'ultima frontiera del tifoso, l'idea è quella di aumentare la pressione, lo
scopo è quello di fare sentire la propria voce. Il tifo silenzioso si inserisce
nella categoria dello sciopero. La parola invocata è quella del rispetto.
Rispetto è diventato un principio ordinatore: dovrebbe intimorire a prescindere
e tutti si dovrebbero conformare al suo cospetto. Si sta discutendo di una
società che dovrebbe allungare un contratto a un giocatore che ha 36 anni. Che
cosa aggiungerebbe all'aspetto sportivo un'ulteriore annata? C'è una
sensazione: ogni mossa del Lugano è valutata attentamente e giudicata con
severità. La proprietà è lontana; il presidente è praticamente “sconosciuto”;
la maglia celebrativa per la Coppa è sbagliata. E cosa rimanda la realtà? I risultati, la squadra è competitiva, il calcio proposto è di alto livello. E
qual è il contesto ambientale? La passione del Cantone e della città è tiepida
e distratta: i quasi 13mila di Berna non sono nemmeno 4mila a Cornaredo. E quale
sarebbe l'alternativa? Tutti lo pensano, tutti lo sanno, nessuno osa dirlo.
Meditate gente, meditate.
(Foto Keystone/Crinari)