Negli
anni Settanta una generazione perse la speranza, aveva messo in
discussione 'la legge del padre', si sentiva stretta nella
categoria imposta dalla borghesia. Ma la sua rivoluzione fu
depotenziata, esplose disordinata, ma fu prima contenuta, poi
limitata, infine cancellata. Nel 1978 il Mondiale di calcio fu organizzato dall'Argentina. La televisione stava intuendo la forza del
football, stava saggiando la sua formidabile capacità di attrazione.
Molte partite si giocavano quando in Europa era notte, magliette
classiche, dove campeggiava solo il numero dei giocatori. Capelli
lunghi, leve lunghe e pallone calciato con il sinistro, uno dei
protagonisti di quell'edizione fu Mario Kempes. Argentina significava regime militare, una dittatura che nel silenzio faceva rumore, e
inflisse una ferita enorme nella popolazione. Kempes è in Italia, e
si lascia andare ai ricordi. “L'unico nostro divertimento era
quello di giocare a calcio”, così rammenta la sua gioventù. In finale, che
si disputò nello stadio Monumental di Buenos Aires, arrivarono i padroni di casa e i
Paesi Bassi, si impose l'Albiceleste ai supplementari per 3 a 1. Fu
la notte di Kempes, segnò due gol. “Eravamo una squadra
inesperta”, l'allenatore era Menotti che “pensò a creare
un gruppo”, ma: “Essere campioni non era la nostra
ossessione, volevamo fare felice la gente”. Il discorso
dell'allenatore prima della partita “durò meno di una
sigaretta”, le aspettative erano altissime “sapevamo di
avere una grande responsabilità, vedevamo l'emozione della gente che
ci chiedeva di vincere”. Sul suo paese: “L'Argentina
viveva un momento terribile, voi sapete cosa stava succedendo dei
desaparecidos”, lui giocava in Spagna: “Quando succede il
peggio lo vieni a sapere, in realtà a quei tempi non lo sapevamo”,
sottolinea: “Dicono che abbiamo vinto grazie ai militari, ma non
è stato così”, aggiunge: “Noi non avevamo relazione con
i militari, rappresentavamo il calcio”, conclude: “Abbiamo
dato felicità al popolo argentino”.
(Foto Keystone)