Non avevamo la tivù e i pochi televisori stavano sparsi in
case altrui. Cinquant’anni fa, qualcosa così, col pa’ e il Sergio in casa della
Lina - vado a memoria senza ricorrere a google o siti vari – forse a colori ma
non ne sono certo. Il portiere Kunz disteso in tuffo, ultimo e vano, che prende
il pallone con il corpo tutto allungato e lo trattiene con la mano appoggiata
sopra. Sembra fatta, il pa’ butta lì un “che bulo”, ma non fa neanche in tempo
a finire di pronunciare che con un rombo di tuono ne arriva uno in maglia
azzurra, scardina il pallone da sotto la mano di Kunz e lo scaglia nella rete.
Non avevo ancora la tifoidea malattia del calcio, era ancora
solo un gioco che per me si svolgeva tra prati d’erba ispida con qualche sasso
da schivare. Nel tinello della Lina, invece, in quel momento diventai adulto a
circa dieci anni, scoprendo il football e i suoi derivati di fede e passione.
In quegli albori il Ticino era confrontato con gli arrivi
migratori dei lavoratori italiani e la diffidenza regnava sovrana. Non ci si
amava, per ignoranza reciproca. Ma il pa’ mi insegnò subito che gli altri vanno
rispettati. Eppure, quel gol strappato dalla mano di Kunz mi smosse un senso di
rivalità che non mi avrebbe mai più abbandonato, nonostante il calcio in culo che
il mio pa’ mi rifilò qualche anno dopo mentre schernivo il Savitt, ragazzo
calabrese arrivato in paese come un extraterrestre.
Quella partita finì quattro a uno per l’Italia, mi pare. Non
è che ne feci una malattia, c’erano cose più importanti da fare tipo cercare
rane o rubare ciliegie, ma il tarlo aveva già cominciato a scavare. Neanche
stasera me la prenderò più di tanto, ma una vittoria della Svizzera è sempre meno
importante di una sconfitta dell’Italia, su questo non transigo.
Ah, quel rombo di tuono che strappò il pallone a Kunz si
chiamava Gigi Riva. Beh, tranquilli, uno così non lo abbiamo noi ma non lo
hanno neanche loro.