“Vado incontro al pericolo, uscirò dalle grazie per entrare
nelle beffe, ma è il momento per farlo”. Non è un aforisma cinese o un mottetto
di Hindermann: è roba di me poveretto, che mi accingo al ludibrio. Ora lo dico:
alle Olimpiadi sono le donne a illuminare la scena e a noi maschi non resta che
trastullarci con novecentesche vittorie e sconfitte sul campo. Siamo superati
dagli eventi, la nostra indole cacciatrice e predatoria è finalmente esposta al
ridicolo o, peggio, all’irrilevanza. Le donne partecipano, si ritirano, si
alzano e cadono con quella dolcezza di ferro che finalmente cambia il mondo.
A Tokyo non c’è nemmeno la “garra” sugli spalti, per via di
quella cosa là, ed è un enorme vantaggio per chi vuole mettere in gioco sé
stessa come atleta e come donna senza sentire gli ululati degli uomini-lupo.
Permettetemi di aggiungere, da maschio etero e per giunta vecchiotto, che sono
bellissime, armoniose come farfalle, oscillanti come giunchi, sinuose come
delfini. Il loro battito d’ala dal Giappone scuote il mondo, le fragilità e le
gioie sono esibite come valori supremi con la delicatezza del ricamo, ben più
alti di un oro o di un bastone.
Naturalmente il cerimoniale maschio è sempre ben presente,
dalle bandiere agli inni, dai parrucconi ai piedi del podio fino ai padroni dei
media e agli allenatori-vampiri (chiedere alle ginnaste statunitensi, per
esempio). Ma sono patetici, di fronte agli occhi fermi e profondi di Jolanda
Neff e Simone Biles, per dirne due, luminose di lacrime opposte che contagiano,
sì, con il virus della bellezza che ci salverà.
Certo, anche i rugbisti delle Isole Fiji che cantano in
cerchio una loro misteriosa canzone sanno scuotere l’anima, ma a noi maschi di
momenti così ne sono rimasti pochi e quei pochi perfino derisi dai maschioni
super. Uno di quelli che non faranno fatica ad accogliere la femminilità nei
nuovi modi di essere è l’affranto Stefan Küng che dopo la beffa del cronometro
mostra una compostezza così dolente da far vibrare la telecamera. Un piccolo
asterisco per noi maschi in declino, dai.
C’è ancora qualche ragazza che urla contraendo il volto e
agitando i pugni nel momento della vittoria, con un’espressione ferina più di
rabbia che di felicità, ma sono rarità e in fondo ognuno faccia poi come vuole,
tra l’altro.
Ora l’ultimo appello, tanto per non restare da solo: non
dividiamoci più, non opponiamoci e accogliamo invece un’idea di mondo dove la
grazia e la fermezza pervadono anche lo sport, riducendo il vincere e il perdere
a dettagli millesimali a fronte della radiosità dei volti femminili e, sempre
più spesso, anche maschili.
Del resto, Olimpia è donna ed è anche il nome di mia madre.
Come maschio, mi dichiaro dunque sconfitto dai sentimenti. Questo è il pericolo
a cui accennavo in partenza. Ma sono contento.