Non parla nessuno, esclusi i soliloquenti con gli
auricolari, però Zurigo è piena e indaffarata anche di sabato. Le persone sono
tornate per strada e vanno qua e là come se fosse riapparso il senso delle
cose. Il viaggio in tram dalla Bahnhof al Letzi è un quadro in movimento,
ancora però nel silenzio più completo della gente. Si sente lo sferragliare e
si gode dello spostamento repentino causato dalle rotaie.
Lo stadio, tre ore prima, è deserto, ma in questo caso è una
forma intima, non come quando era vuoto per virus. Poi prende vita con
placidità, fuori comincia a rumoreggiare il disappunto degli ultras da curva,
che non ne vogliono sapere di tracciamenti e certificati. I canti e i botti
arrivano nelle cuffie da un altrove, con un battito da savana. Le prime ombre
dell’assedio salgono sui muri perimetrali, invasori dissidenti che danno
all’austero Letzi un’aria da Sudamerica.
Qualcosa di arcano succede anche nel campo, forse una
macumba. Il Losanna si dispone in colore viola e si muove a ritmo d’Africa, ma
viene colpito proprio da un figlio di quel continente, il gambiano Ceesay. Gli
risponde subito Ouattara, ivoriano, ma Ceesay replica, trovando una mira che
non ha mai avuto. Fuori i tamburi ora rullano, in anticipo sul Primo d’agosto
esplodono fuochi. Zurigo s’infiamma di passione, lo speaker invita ad
abbandonare le mura, senza che nessuno gli dia retta. Tutti sordi e ciechi.
La partita finisce verso l’imbrunire e quasi subito svaniscono
voci e spari. Resta ancora e solo il rumore del tram sulle rotaie e poi il
fruscio del treno ultramoderno che riporta in Ticino con quel senso ovattato da
camera d’ospedale nella notte.
No, non siamo ancora guariti, in fondo siamo solo alla
seconda di campionato e il Losanna non ha ancora capito che giocando così
retrocede. Con o senza pubblico.